Il voto sull’acqua cambierà tutto per non cambiare niente

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Il voto sull’acqua cambierà tutto per non cambiare niente

14 Giugno 2011

E’ difficile commentare i referendum a caldo, dopo che il popolo italiano con maggiore o minore consapevolezza si è espresso a favore dell’abrogazione delle norme su cui vertevano i quesiti. Proverò a fare il punto sui referendum sull’acqua. La prima considerazione che mi viene spontanea, pensando agli slogan utilizzati in campagna elettorale, è che gli Italiani hanno ribadito che l’acqua è un bene pubblico ed inalienabile. Rispetto a questa posizione anch’io, che appartengo alla schiera degli “sconfitti”, tiro un sospiro di sollievo, riflettendo che d’ora in poi a nessuno potrà venire in mente di vendere a chicchessia le risorse idriche nazionali. Dal momento però che nessuno aveva mai proposto questo tipo di alienazione, mi assale il dubbio su cosa accadrà ora di diverso rispetto a prima. Gli scenari possibili sono tanti e solo un indovino potrebbe dipanare la matassa, ipotizzando soluzioni realmente vantaggiose per i cittadini.

Ad esempio, ora che gli italiani si sono espressi sulla illiceità dei profitti derivanti dal servizio idrico, potrà accadere che gli Enti pubblici che hanno realizzato un utile di bilancio restituiscano i profitti agli utenti? Ovviamente si tratta di una vana speranza. Allora è più probabile che questi profitti vengano utilizzati per investimenti tesi a ridurre le perdite, e ciò potrà avvenire attraverso due vie: la prima impone il ricorso a soggetti privati, la seconda è quella di tentare un recupero di efficienza con una soluzione “in house”.

Nel primo caso i profitti dell’acqua genereranno inevitabili profitti per i privati: ma non era questo che si voleva scongiurare con il referendum? Nel secondo caso sarà necessario potenziare i servizi tecnici all’interno degli Enti, con nuove assunzioni ed aumento delle spese fisse di gestione. Con questo scenario se ne potrà trarre beneficio dal punto di vista sociale (nuovi posti di lavoro), ma nutro forti dubbi che ciò risponda a criteri di economicità ed efficienza. Il tutto, comunque, a spese dei cittadini.

Anche in merito all’altro cavallo di battaglia propagandistica, secondo il quale l’acqua non può essere oggetto di compravendita, temo che poco o nulla accadrà, almeno nel breve periodo, perché molti acquedotti continueranno ad approvvigionarsi a fonti non gestite in proprio e quindi continueranno a comprare l’acqua e, probabilmente, a non pagarla, aggravando i dissesti degli Enti gestori delle infrastrutture di accumulo e captazione. Anche in questo caso il tutto ricadrà sulla collettività, chiamata a sanare il debito accumulato (per esempio dai consorzi pugliesi).

Infine, sempre nel nome dell’acqua “pubblica ma non troppo”, continuerà ad essere un problema insormontabile quello del trasferimento di una risorsa idrica non utilizzata da una regione all’altra, in nome degli interessi supremi delle comunità regionali che si continueranno a ritenersi “proprietarie” dell’acqua. Parrebbe possibile concludere che il “sì” ai referendum sull’acqua non cambierà alcuno scenario nel breve periodo. Al contrario, nel medio e lungo periodo le cose dovrebbero cambiare radicalmente se si vuole essere rispettosi fino in fondo della volontà espressa dai cittadini con la risposta ai quesiti referendari.

Infatti, con l’abrogazione delle norme contenute nei quesiti, sarà necessario che il legislatore riveda completamente l’insieme delle norme che regolano il servizio idrico, a partire dalla legge Galli che sanciva l’economicità dell’acqua. Infatti, se l’acqua non è più un bene economico, lo Stato dovrà ricominciare a mettere mano al portafoglio per finanziare le infrastrutture idrauliche, senza pretesa di rientrare dagli investimenti effettuati e tanto più dovrà farlo in quelle Regioni svantaggiate, prive di risorse proprie. Infatti, per mantenere il valore sociale dell’acqua, il costo degli investimenti non potrà costituire aggravio in bolletta, ma dovrà derivare dal gettito fiscale, nel nome del principio che ciascun cittadino contribuisce a garantire i servizi essenziali secondo le proprie possibilità. Ed ancora, lo Stato gestore dovrà riappropriarsi di tutta la materia, in modo che nessuna Regione possa più opporsi allo sfruttamento della risorsa, anche se a beneficio di Regioni limitrofe (la litigiosità fra le Regioni sarebbe stata naturalmente depotenziata in un sistema regolato da leggi di mercato, seppur calmierate da norme di tutela).

Ovviamente, la coerenza delle norme in materia di soddisfacimento dei diritti primari, dovrebbe imporre una totale revisione di leggi e regolamenti attualmente in vigore. Ad esempio non ha più alcun significato tenere in vita le Autorità d’ambito con competenze in materia di pianificazione territoriale e di tariffazione dell’acqua, giacché risulterebbe una costosa duplicazione dell’Ente Gestore, anch’esso pubblico. Ed ancora, sarà necessario rivedere completamente il sistema di approvvigionamento, giacché la compra-vendita di acqua da Ente pubblico ad Ente pubblico avrebbe decisamente poco senso. Probabilmente sarà opportuno che gli Enti acquedottistici gestiscano in proprio anche le dighe e che si riapproprino dell’Energia elettrica necessaria (attualmente in mano a privati) per far funzionare gli impianti.

Ovviamente occorrerà tempo e studio per ridefinire un assetto giuridico coerente ed allo stato attuale nessuno è in grado di prevedere cosa ci riserva il futuro, giacché gli interrogativi cui dare risposta sono tanti. Ad esempio, l’affidamento della gestione di parte degli impianti a privati sarà da considerarsi legittimo in futuro? Ed ancora, se si è affermato il principio che i servizi primari devono essere erogati dallo Stato, si potrà assistere in futuro ad una poderosa retromarcia nel settore dell’energia, delle telecomunicazioni, ecc.?

Insomma, la legge Ronchi interveniva a completare un percorso legislativo lungo e complesso ed a risolvere alcuni punti controversi che caratterizzavano il servizio idrico. Il doppio “sì” ai referendum ci porta indietro di molti anni e ci sarà molto da lavorare per rimettere ordine alla materia, con la certezza quasi assoluta che nessuna delle criticità tipiche dell’attuale assetto acquedottistico potrà essere risolta. In tutto ciò vi è solo una speranza che deriva dall’annosa esperienza di attività referendaria: cambiare tutto per non cambiare niente. E’ accaduto per l’abrogazione del ministero dell’Agricoltura, dove si è fatto appello a tutta la fantasia italica per impedire che un referendum privasse l’Italia di un dicastero essenziale in chiave europea, ma è avvenuto anche in tema di responsabilità civile dei magistrati, dove la rivoluzione proposta dai cittadini è rimasta tale solo sulla carta.

C’è da pensare che anche per l’acqua non cambierà nulla e che, ad un inevitabile periodo di grande confusione, faccia seguito una ripresa del processo di liberalizzazione della gestione della risorsa che, rispettoso dei diritti dei cittadini, restituisca definitivamente alla storia il mito del socialismo reale.