Non c’è il diritto ad avere un figlio sano
08 Luglio 2011
Caro direttore,
la sentenza di Salerno ha riaperto il dibattito sull’eugenetica e la diagnosi preimpianto. Una coppia portatrice di una gravissima malattia genetica ha un bimbo sano, e vorrebbe averne un altro. Perché negare loro la possibilità di selezionare gli embrioni, in modo da avere la certezza che questo secondo figlio sia in buona salute? Isabella Bossi Fedrigotti, nel suo articolo di ieri, approva la decisione della magistratura e mi accusa, sia pure garbatamente, di intransigenza.
La legge 40, come è noto, parla di “procreazione medicalmente assistita”, indicando già nel titolo lo scopo per cui è nata: dare alle coppie infertili, cioè a chi non riesce a concepire per vie naturali, la stessa opportunità che hanno quelle fertili. Si accede alle tecniche di laboratorio, insomma, per avere la possibilità di avere un figlio, non per sceglierlo: esattamente come avviene nella procreazione naturale. La legge è stata votata da una maggioranza di laici e cattolici, dopo anni di dibattiti e riflessioni. Le accuse però sono rivolte quasi sempre ai cattolici, che sarebbero poco inclini alla compassione. Eppure sono i cattolici, nella storia, che hanno esercitato e diffuso la carità, l’amore gratuito, l’accoglienza, l’idea che ciascun essere umano è, malato o sano, disabile o no, una persona. Da questa cultura sono nate istituzioni come il Cottolengo, quando verso i disabili c’era rifiuto e orrore.
La diagnosi preimpianto non è una terapia, ma una pura forma di selezione genetica, spesso su semplice base probabilistica. In Inghilterra, per esempio, si possono eliminare embrioni che hanno la probabilità (non la certezza) di sviluppare in età avanzata un tumore, o persino un tasso di colesterolo troppo alto. Per attuare una selezione efficace bisogna produrre dieci, venti embrioni o anche più, di cui solo uno o due sono destinati a svilupparsi. Gli altri saranno scartati (anche se perfettamente sani) e conservati sotto azoto liquido, in una surreale e inquietante condizione di vita sospesa.
Tutti sappiamo quanto il desiderio di maternità e paternità sia profondo, vitale e insopprimibile. Ma si può realizzare anche senza ricorrere a queste tecniche: chi vuole crescere un bimbo, avere il bene di amarlo e accudirlo, lo può fare in molti modi, tra cui vorrei segnalare l’affido, che come Ministero del Welfare abbiamo fortemente promosso. Nonostante i buoni risultati conseguiti, ancora oggi non è facile dare una casa a un bambino che ha difficoltà, o che ha solo bisogno di calore familiare. Eppure offrire accoglienza e protezione a un bimbo che non può averli dalla famiglia d’origine, è un gesto appagante quanto una maternità naturale, e quel bimbo è un figlio come gli altri. Se non ricordiamo questo, rischiamo di reintrodurre la retorica ottocentesca del legame di sangue, e di affermare che esiste un unico modo di essere genitori. Il desiderio di maternità non può trasformarsi in diritto, e in particolare in diritto al figlio sano. Un essere umano non può essere il diritto di qualcun altro, la proiezione di aspettative altrui, ed essere genitori insegna a confrontarsi anche duramente con la consapevolezza che un figlio è altro da sè. Un ultimo punto: le leggi, in un paese democratico, le fanno i parlamentari eletti dal popolo. In questo modo i cittadini possono esprimere la propria disapprovazione attraverso il voto, o intervenire grazie a strumenti correttivi come il referendum. La magistratura non ha il compito di modificare o stravolgere le leggi, e disattendere questo principio fondamentale mi sembra assai pericoloso.
© Tratto da Il Corriere della Sera del 26 Gennaio 2010