Affinità (poche) e divergenze (tante) tra la scimmia e noi
04 Ottobre 2011
L’uomo e le scimmie. Sotto questo titolo emblematico e provocatorio si tenne centocinquant’anni fa, nel 1864, all’indomani della pubblicazione dell’Origine delle specie di Charles Darwin in Italia, la lettura pubblica dello scienziato Filippo De’ Filippi intorno alla discendenza dell’uomo dalle scimmie antropomorfe. Era l’inizio soltanto di una polemica infervorata sull’origine dell’uomo attorno alla quale si accapigliarono e si accapigliano a tutt’oggi, in Italia e altrove, teologi e scienziati, liberi pensatori e credenti dogmatici, clericali e anticlericali, moralisti e libertini. Basti ricordare la querelle tra creazionisti ed evoluzionisti che si è dispiegata in questi ultimi anni in America come in Europa, con tanto di dibattiti politici e bibliografie pro e contra.
E dunque: l’uomo è una scimmia che ha perso il pelo o un angelo che ha perduto le ali, come simpaticamente scriveva di sfuggita in un suo libro il tagliente Cioran? E se, certo, quest’ultimo manifestava l’indifferenza del suo pessimismo rispetto a tale questione, all’epoca sembrò invece che dalla soluzione del dilemma dipendessero il destino dell’essere umano e i fondamenti dell’etica, il progresso morale e civile o l’irrimediabile caduta dell’uomo nel mondo materiale e nel peccato. Sin dalle origini del dibattito sul darwinismo, i difensori di Darwin, da una parte, vedevano predicata nella legge dell’evoluzione la legge del progresso storico. Alzatosi dai più bassi meandri dell’animalità inferiore l’uomo era giunto ai più grandi traguardi della civiltà e marciava ora verso chissà quali magnifiche sorti e progressive. Le civiltà dell’uomo si dispongono lungo la storia in un ordine ascendente dove le più forti attraverso i paradigmi darwiniani della selezione e della lotta si affermano a discapito delle più deboli che vengono sopraffatte. Gli antievoluzionisti, dall’altra parte, vedevano nelle teorie “bestiali” di Darwin conseguire invece un “imbestiamento” dell’uomo e una degenerazione morale e sociale. Il materialismo delle scienze apriva la strada all’ “epicureismo sensuale” e dissolutore, alla perdita del “divino” nel “sentire e nel pensare”. Le “depravate e sozze” idee del materialismo trascinavano l’uomo verso l’animale, quasi che dal materialismo teoretico conseguisse logicamente un materialismo morale, etico.
Benché bistrattate per la loro scarsa critica scientifica dagli scienziati evoluzionisti di ieri e di oggi è tuttavia in alcune di queste pagine degli antidarwinisti cattolici ottocenteschi che si trovano alcune lucide riflessioni capaci di portare nuovi lumi e rischiarare il problema sempre aperto delle origini dell’uomo. A proposito del nodo cruciale del darwinismo, quello della discendenza dell’uomo dai quadrumani inferiori, alcuni scrivevano che tra le scimmie e l’uomo esiste una “barriera insormontabile”. Tra l’animale e l’uomo vi è un salto ontologico, sostenevano alcuni ricorrendo addirittura a Tommaso D’Aquino, una differenza qualitativa dell’essere e non un mero passaggio gradualistico e quantitativo. Dire che l’organismo biologico dell’uomo derivi dall’organismo biologico dello scimpanzé non è la stessa cosa che dire che l’uomo tutto intero discenda dalle scimmie, ribadivano altri. L’uomo non è soltanto l’homo biologicus risposero allora a quanti, come Cesare Lombroso, cercavano di dedurre le qualità dell’anima o i tratti del carattere e della personalità da misurazioni craniometriche, o indugiando su vivisezioni da laboratorio cercavano di carpire il segreto della vita. Si indichi, dicevano altri ancora, “quando è stato e come è stato che questa scimmia per accendere un ramo secco e per trarre una scintilla dalla pietra focaia, smise la sua natura di bruto, per assumere quella dell’animale ragionevole, dell’uomo?”. Dov’è il punto dove si originò la coscienza? E quello in cui questa poté specchiarsi in sé stessa, divenire autocoscienza? Tra la “scimmia meglio sviluppata” e l’uomo dotato di “doni meravigliosi di mente e di cuore” vi è un “baratro infinito” scriveva il cattolico John Augustine Zahm alla fine dell’Ottocento.
Questi antievoluzionisti anticiparono singolarmente la rinascita delle filosofie idealistiche del Novecento. Sembrano addirittura consuonare con le loro alcune parole più tarde di Benedetto Croce, contenute in quel suo capolavoro che è Teoria e Storia della storiografia. Reagendo alle iperboli del positivismo ottocentesco, e allo scientismo allora dilagante, a quel clima culturale dove si originò lo stesso dibattito sull’Origine, Croce osservava, a proposito di una certa antropologia naturalistica, come quella di Conrad Lorenz, che tra natura e storia esiste un “muro divisorio”, e non si possono mescolare confondendole le leggi e le regole dell’una con quelle dell’altra. Per Croce la natura è il mondo della necessità, della causalità, delle inflessibili leggi della fisica e della chimica, dell’evoluzione se si vuole. La storia è il mondo degli uomini, della volontà e della libertà, del dispiegarsi dell’ideale, del pensiero, del progresso, che non è l’evoluzione. Le leggi che muovono la natura non sono le stesse che governano le società, la civiltà dell’uomo, le manifestazioni dell’intelligenza umana, i costumi, la cultura.
E non solamente questo spunto crociano sembrerà essere prezioso ancora oggi, allorché si pensi alla fortuna che hanno avuto anche nel Novecento il riduzionismo biologico, il fondamentalismo sociobiologico, le pseudo-teorie razzistiche, ed in generale l’uso improprio delle teorie della natura, ed in particolare del darwinismo, per giustificare ora il capitalismo liberistico, ora il socialismo egualitario. Karl Popper, nel Novecento, in reazione alle iperboli del positivismo e contro le scuole del neopositivismo, riporta anche egli la scienza nei propri ranghi a partire da una prospettiva di riflessione interna alla scienza medesima. Egli rivendica il carattere metodologico della scienza moderna, che essa racchiude come proprio nucleo originale sin dal suo battesimo con Galileo Galilei. La scienza è metodo di investigazione e non sistema. Essa è uno strumento di approssimazione della realtà, di interpretazione del mondo, ma non è la realtà stessa. Nella Miseria dello storicismo Popper criticherà il determinismo meccanicistico e la sua presunta “scientificità” sul piano storico e, più in generale, sosterrà che il determinismo e il materialismo delle scienze vanno interpretati in un’ottica metodologica, procedurale, ma non rinviano affatto ad una metafisica materialistica e deterministica.
Nella prospettiva che si è voluta qui soltanto delineare, quella dell’anello mancante in realtà è solo una delle questioni che rimangono perennemente aperte per il fatto di costituire non già dei problemi insolubili, ma dei problemi mal posti, almeno a nostro avviso. Così, per esempio, si pensi agli interminabili dibattiti e congressi sul rapporto tra mente e cervello che vedono scervellarsi neuroscienziati e filosofi della mente, o quelli sulle origini dell’Universo e i mai sopiti interrogativi sull’esistenza o meno di un motore immobile, di un’intelligenza o di uno spenceriano Inconoscibile di là della nuda roccia dei pianeti galleggianti nei vacui spazi siderali. Problemi la cui soluzione sta in gran parte nel mettere in ordine le carte, nel ripensare cioè correttamente da una parte a quei rapporti tra cultura e natura, mondo dell’uomo e scienze fisiche, e dall’altra al ruolo, alla funzione e ai fondamenti della scienza stessa. La scienza indaga la natura o la materia, le leggi che essa inferisce non sono applicabili a tutto l’uomo, alla storia, alla cultura, alla società, e non per forza esse confliggono con le religioni, la metafisica, l’apertura alla trascendenza, riguardando queste altri lati dell’uomo e della sua libertà. Contro la scienza che vedeva già imporsi come “nuovo assoluto”, l’antievoluzionista Antonio Stoppani, in una pagina suggestiva di fine Ottocento, scriveva che vi sono regioni dove “non può penetrare lo scalpello, né farsi sentire l’azione dell’acido o della pila”.