Difesa di Buttafuoco, artista che ci piace anche quando non lo condividiamo
09 Ottobre 2011
di Luca Negri
A parer nostro, Dino Cofrancesco ha proprio esagerato in un suo recente articolo apparso su questa testata, definendo Pietrangelo Buttafuoco un “concentrato, spesso supponente, dei più diffusi luoghi comuni della destra cattolica e tradizionalista”. Aggiungeremmo che per le nostre orecchie “redivivo Giovanni Papini versione Trinacria” è tutt’altro che un insulto. Ce ne fossero ancora in giro di autori con forza nello scrivere e sfrontatezza di pensiero pari a quelle del fondatore di “Lacerba”. Inoltre è probabile che a Buttafuoco non interessi tanto il provocare il buon borghese quanto risvegliare tensioni spirituali in chi lo legge con indulgenza e non con i solidi schemi del liberalismo laico piantati nella coscienza.
Certo, Cofrancesco ha pienamente ragione nel criticare certe passioni alla Julius Evola del giornalista e scrittore siciliano, soprattutto l’indulgenza con la leggenda neopagana di una perdita di contatto con il trascendente causata dal cristianesimo. Per non parlare della sua visione dell’islam come valida alternativa alla crisi di valori e al naufragar discreto nel nichilismo della nostra civiltà. L’islam mistico nella mente di Buttafuoco ha infatti veramente poco da spartire con quello vero, con quello che si presenta sulla scena mondiale e spesso mantiene solo la struttura legislativa della religione di Maometto. Al punto che, sposandosi con il capitalismo, tende a figliare governi totalitari che agli insegnamenti della Tradizione guenoniana preferiscono il peggior lascito del Novecento giacobino.
Date per scontate, a questo punto, una certa voluta incomprensione del cristianesimo (e dunque dell’Occidente) e un eccessivo entusiasmo enfatico per l’islam, ci sarebbe da far notare che Buttafuoco non scrive programmi politici ma prose d’arte giornalistica e romanzi. Non è un parlamentare, ma un’artista, e soprattutto come artista andrebbe giudicato. Da quel punto di vista, a noi pare un grandissimo scrittore, uno dei migliori fra i contemporanei italiani, uno che grazie al cielo (sia cielo di Allah o della Santissima Trinità) non racconta sfighe generazionali o corna da salotto né fabbrica compitini politicamente corretti in vista di premi letterari o recensioni su “la Repubblica”.
Protagonista del suo primo romanzo era un’affascinante spia nazista nella Sicilia della seconda guerra mondiale, del secondo un cardinale napoletano coinvolto dal diavolo in un patto scellerato. Una buona dose di coraggio, insomma; confermata nella sua ultima fatica, da poco pubblicata per Bompiani. Eroe de "Il lupo e luna" è infatti Scipione Cicala, detto Cicalazadé, leggendaria figura seicentesca di nobile messinese rapito giovinetto dai pirati saraceni, convertito all’islam e trasformato in giannizzero in quel di Istambul. E dopo una sanguinaria e predatrice carriera, ormai espertissimo nella “scienza della razzia” a danno di città, coste e flotte cattoliche, addirittura nominato visir del Sultano. Senza che gli sia stato estirpato l’amore per la sua terra e famiglia né un po’ d’attrazione per il culto che lo ha comunque battezzato. Il feroce rinnegato incontra ed aiuta il Campanella (e qui esce il Buttafuoco utopista, anche perché ogni reazionario è utopista al contrario) e si scontra con il redivivo principe di Transilvania Vlad Tepes ancora impalatore di infedeli e non vampiro vittoriano. Le pagine del duello con il futuro Dracula (capace uccidere bestie e spaccare spade a morsi) meritano un posto fra gli apici della narrativa scritta nella nostra lingua negli ultimi anni. Non solo per l’atmosfera fantasy e stregata (l’esercito di erinni e furie accanto a Tepes) che s’impone in tutto il romanzo anche con le figure del lupo che accompagna sempre cicala e la donna amata, Selene, luna incarnata. È lo stile che rende grande Buttafuoco, al punto che riesce a piacerci quando dice cose con condividiamo. I suoi affezionati lettori sanno che spesso ricorre alla ripetizione, al tono salmodiante, ad una cadenza da litania che ci ricorda, con le dovuta differenze Charles Péguy. Nel romanzo del rinnegato questa soluzione è appunto portata al massimo risultato proprio perché si ricollega alla tradizione siciliana del “cunto”, il racconto orale di vicende epiche ed eroiche tipico.
L’ammazzarsi dei personaggi però non è lotta di pupi, di marionette rigide, e neanche delirio di fede come può temere Cofrancesco. Anche nei suoi articoli polemici Buttafuoco non esalta la guerra santa perché pretende che gli uomini muoiano per difendere il loro Dio. Preferisce ricordare loro che può esistere un altro vivere, in grado di affrontare le dure necessità della storia e le tragedie del combattimento inevitabile ma non riduca le sue azioni alla ragione calcolatrice e al calcolo mondano. Forse è proprio ciò che servirebbe al liberalismo occidentale per uscire dai suoi limiti, evitare l’abisso nichilistico, non ridursi a mera e faticosa amministrazione dell’esistente e non soccombere al fondamentalismo sunnita o sciita.
Forse in questa aspirazione possiamo incontrarci con Buttafuoco. Sempre con la speranza che segua veramente le orme di Papini fino ad abbracciare il cattolicesimo in tutte le sue contraddizioni, al prezzo di abbandonare la purezza del sufismo islamico.