Caro Alberoni, di società e natura non riusciremo mai a capire il segreto
23 Agosto 2011
Nella sua rubrica ‘Pubblico & Privato’, di tanto in tanto, Francesco Alberoni mette da parte la ‘posta del cuore’per affrontare i grandi temi del nostro tempo e indossare di nuovo l’abito di lavoro del sociologo originale e a tratti geniale quale egli fu negli anni delle sue riflessioni sul movimento e le istituzioni. In questi casi, però, tornando all’heri dicebamus, si rischia di evidenziare, sulla distanza, i limiti di un approccio metodologico che la novità delle tesi esposte relegavano allora in secondo piano. Nell’articolo Non trasmettiamo più valori e i giovani si ribellano,‘Corriere della Sera’ 15 agosto 2011, quei limiti si mostrano allo scoperto. <Da molto tempo, esordisce l’A., i sociologi hanno dimenticato due domande essenziali: come si forma una società? Cosa la tiene unita? Queste domande sono scomparse quando è prevalso anche in Europa il modo di pensare dominante negli Stati Uniti, l’utilitarismo, che spiega qualsiasi fenomeno sociale in base alla convenienza, al calcolo costi-benefici, come fa l’economia>.
Ma davvero Alberoni pensa che si possa rispondere a domande: <Come si forma una società? Cosa la tiene unita?>. In realtà, se qualcuno fosse in grado di farlo meriterebbe che gli venissero erette le statue che nel Foro romano celebravano duci e imperatori. La società, come la natura in genere, fa parte di quell’<enorme mistero dell’universo> di cui non riusciremo mai a carpire il segreto. Ci troviamo sulle rive di un oceano in cui non ci è dato avventurarci e per saperne di più possiamo contare solo sui detriti vegetali e animali che le onde riversano sul bagnasciuga. E’ la saggezza del vecchio empirismo inglese, l’unica filosofia che possa dirsi un nutrimento adeguato per la mens liberale.
Se il successo delle comunità politiche non può venir inteso da un approccio utilitaristico — <che spiega qualsiasi fenomeno sociale in base alla convenienza, al calcolo costi-benefici, come fa l’economia> — non lo può neppure da un approccio idealistico, fondato sui valori, giacché, a ben riflettere, questi valori sono il carburante che rende possibile alla macchina sociale mettersi in moto e raggiungere alte velocità ma che senza la macchina sociale è soltanto materiale infiammabile e pericoloso. Nessun dubbio che gli inglesi dell’età vittoriana o gli americani dell’età di Jackson siano stati animati da <ideali politici e religiosi> per i quali erano <disposti a morire> ma senza le istituzioni politiche–i <leviatani dalle viscere di bronzo>, come Benedetto Croce chiamava gli stati — quegli ideali si sarebbero dissolti nell’etere come tanti movimenti collettivi studiati da Alberoni.
<È stato solo quando, dopo un secolo di anarchia, la Cina ha ritrovato la sua unità e la fede in se stessa che è stata capace di svilupparsi in modo imperioso, mentre l’URSS, quando ha perso la fede nel comunismo e nella sua missione si è dissolta>. Non vorrei fare la parte di Sancho Panza ma l’URSS è caduta perché incapace di reggere il confronto non solo missilistico con l’America di Ronald Reagan e perché l’economia collettivista non è stata in grado di riempire la borsa della spesa delle massaie moscovite. Quanto alla Cina, il suo nazionalcomunismo sarebbe una curiosa modalità asiatica del marxleninismo se a sostenerlo non fosse un apparato politico e industriale temibile, in grado di controllare spazi vitali a misura di continente.
<Gli Stati Uniti hanno assimilato tutti gli immigrati perché erano una civiltà in espansione che offriva loro non solo lavoro, ma una comunità ideale, una speranza, un’etica, dei valori e dei doveri assoluti. Solo così hanno potuto integrare popolazioni di lingue, razze e religioni diverse, come un tempo hanno fatto l’impero egiziano, quello cinese e quello romano. Ma quando non hai più la forza di trasmettere i tuoi valori non integri nulla>. Non so quanto questa cupa diagnosi — peraltro non del tutto nuova, è da tempo immemorabile che si parla della crisi irreversibile della società nordamericana — corrisponda alla realtà ma anche dandola per buona, la sconsolata constatazione che <non c’è più religione!> ci aiuta davvero a capire il mondo in cui viviamo? Se non azzardiamo almeno qualche ipotesi sulle cause del venir meno della <tensione ideale>, non si rischia lo stile comunicativo dello scompartimento ferroviario dove tutti i viaggiatori si trovano d’accordo nel deplorare il <disagio delle civiltà> ma nessuno è convinto dalle spiegazioni che ne danno gli altri? Perché gli Stati Uniti non hanno più <la forza di trasmettere> i loro valori? E’ questo il punto su cui vorremmo essere illuminati ma proprio qui possiamo essere sicuri di venir lasciati senza risposta.E per la semplice ragione che solo il dio che <può salvarci> è il dio che <può illuminarci>.
La politica, come il mercato, è il risultato di innumerevoli azioni compiute da uomini che agiscono in vista di scopi particolari ma che non sono in grado di coordinare in vista di una programmazione razionale. E’ una maledizione ma anche una fortuna, come mostrano i totalitarismi del secolo breve, che invece avrebbero voluto imbrigliare il divenire sociale e incanalarne le acque nel mulino dell’utopia o del mito. Quasi sempre il <successo delle nazioni> è dovuto alla capacità di tenere insieme le aspettative più diverse: la potenza militare genera l’orgoglio dell’appartenenza ma esso si alimenta delle accresciute risorse che quella potenza riversa sulla vita quotidiana. L’Inghilterra, regina degli Oceani, offriva, nei suoi dominion, lavoro, gloria, benessere: dirsi sudditi di Sua Maestà britannica riempiva l’animo come l’antico ‘civis romanus sum’ ma se la potenza si fosse accompagnata a sacrifici e a rinunce a una vita appena decente—come in URSS dove i cannoni erano tanti ma il burro scarseggiava — le sole idealità non avrebbero certo scaldato i cuori.
La rivoluzione è un’idea che trova delle baionette ma senza le baionette niente rivoluzione e senza l’idea le baionette vengono adibite ad altri usi. Abbiamo messo sul tavolo solo due pedine — la politica e l’economia — ma non va dimenticato che l’esistenza individuale e collettiva è sempre maledettamente complicata e spesso è il caso che determina un esito piuttosto che un altro. Gli stati della mente sempre nuovi, gli interessi percepiti in maniera sempre diversa, il disaccordo, spesso insanabile, sui modelli di vita buona, rendono la convivenza sociale sempre più difficile. Si ha la speranza che agendo su un determinato fattore (sociale, economico, culturale, politico etc.), si riduca la pressione dei bisogni e delle esigenze che si generano continuamente nell’epoca segnata irrimediabilmente dallo ‘spirito moderno’, ma nessuno ha il potere di ridurre drasticamente l’incertezza che tutti ci avvolge (e che in definitiva rende la democrazia uno strumento irrinunciabile di ‘pacificazione’ e di reciproca tolleranza).
Che senso ha richiamare gli imperi egiziano, cinese e romano che <hanno potuto integrare popolazioni di lingue, razze e religioni diverse>, oggi che una storiografia da pubblici ministeri non fa altro che ricordarci i costi umani e culturali di quell’integrazione? La storia non è un megastore in cui possiamo acquistare tutti i prodotti che ci piacciono: ad es. la <libertà degli antichi> — quella che oggi si chiama il ‘republicanism’ — e l’individualismo etico-politico dei moderni, l’unificazione imperiale che chiude le porte del tempio di Giano e il rispetto di tutte le ‘culture’, il modo di produzione capitalistico che produce una massa di beni quale non si era mai vista nella storia dell’umanità e un’economia ‘aristotelica’ che soddisfi solo i bisogni ma non incida sulla nostra visione del mondo e sul nostro modo di percepire la realtà. Da Efeso ad Atene, da Arles a Leptis Magna vediamo oggi i resti di una civiltà che dappertutto costruiva il foro e il tempio, le terme e l’anfiteatro: personalmente trovo tutto questo esaltante, ma per Simone Weil questa uniformità era il segno di un imperialismo che la pensatrice ebraica, in riferimento ai giochi gladiatori, non esitava a definire ‘nazista’.
continua…