Il dolce naufragio della letteratura italiana tra fascismo e dopoguerra
17 Luglio 2011
di Luca Negri
Non è più tempo di intellettuali organici, per fortuna. Certo a sinistra qualcuno si è lamentato per l’impegno troppo tiepido di scrittori e addetti alla cultura nel contrastare il preteso regime berlusconiano; mentre il centrodestra non ha mai investito granché nella “lotta delle idee” (e i risultati sono sotto gli occhi di tutti…). Invece nei momenti più gravi e seri della nostra recente storia nazionale, gli anni del fascismo, della seconda guerra mondiale e della ricostruzione, gli intellettuali si sono invece spesi con generosità. O almeno così si crede finché non si legge Spettatori di un naufragio (Einaudi editore), saggio di Raffaele Liucci (già biografo dello “Stregone” Indro Montanelli) che racconta l’inedita storia degli scrittori che “osservarono da lontano il naufragio dell’Italia”.
Si scopre che molti intellettuali furono “propensi a eludere gli imperativi categorici della Storia e della Politica” e si sistemarono nella cosiddetta “zona grigia” in compagnia della stragrande maggioranza degli italiani. Soprattutto nel tragico biennio di ’43 –’45 non appoggiarono i partigiani né i fascisti, “rimanendo alla finestra” invece di prender parte alla guerra civile (definizione contestata, tra l’altro, dallo storico Ernesto Galli della Loggia proprio per lo scarso coinvolgimento popolare e il minimo numero di combattenti su entrambi in fronti). Non pochi scelsero il disimpegno, non per vigliaccheria, spesso per disgusto o per precise ragioni ideologiche.
C’è ad esempio un Cesare Pavese rimosso, “antistoricista” ed interessato più al mito che al progresso; un comunista poco convinto che aderì al partito più per dovere morale ed influenza dell’ambiente intorno che per trasporto spirituale. Non aveva fatto alla Resistenza, si era rifugiato ne “La casa in collina” mentre nel resto del Piemonte partigiani e repubblichini si sparavano. I morti rossi e neri li vide poi partecipare alla stessa comunione, fratelli fratricidi falciati in realtà dalla follia archetipica della guerra. Poco a che spartire con il collega Elio Vittorini, autore con un suo noto romanzo uscito nel 1945 della tranciante distinzione manichea fra combattenti partigiani e fascisti: “Uomini e no”.
Per un Salvatore Quasimodo, che voleva una poesia in grado di assumersi il compito di “rifare l’uomo”, mettendosi al servizio del progresso storico (che in quel periodo per lui era rappresentato dai partiti di sinistra), c’era un liberale scettico come Vitaliano Brancati al quale non sfuggiva quanto gli stilemi del fascismo si stessero riaffacciando nell’antifascismo, e mica solo a casa nostra (“non si capisce in verità perché Sartre non sia il filosofo del nazismo”). Le piazze gremite che osannavano Togliatti avevano lo stesso aroma di quelle che pochi anni prima accoglievano Mussolini. Sulla stessa linea era Ennio Flaino, membro orgoglioso della “minoranza silenziosa”, che rifiutava la sua firma su qualsivoglia manifesto e scriveva: “per vivere bene non bisogna essere contemporanei”.
Fra i liberali di destra spiccava Dino Buzzati, reporter di guerra che preferiva però contemplare e fantasticare arrampicato sulle sue amate montagne. Nel 1941 aveva dato alle stampe il romanzo manifesto dei non impegnati, Il deserto dei tartari, lontano anni luce dalla retorica attivistica del fascismo. Un altro genio della letteratura fantastica italiana, Tommaso Landolfi, esercitava la sua “ontosa libertà negativa”, si godeva il suo “beato senso d’irresponsabilità” rinchiuso nella villa di famiglia mentre fuori infuriavano i combattimenti. Giovanni Comisso si era lasciato alle spalle l’entusiasta coinvolgimento giovanile nell’impresa fiumana agli ordini del primo ed originario duce Gabriele D’Annunzio. Salutò con dolore e scetticismo la seconda guerra mondiale e avrebbe voluto “una grande pietra sepolcrale” sulle vicende dal 25 luglio 1943 al 25 aprile 1945 quando le due parti si erano “pareggiate in ferocia e bestialità”.
E che dire di coloro che erano stati fascisti o fiancheggiatori o quantomeno ispiratori del movimento? Come reagirono al conflitto e all’edificazione della nuova Italia? Giuseppe Prezzolini aveva radicalizzato la sua opzione da apota (“colui che non la beve”) al di sopra delle parti; non si schierò, rimase negli Usa ad insegnare all’università, si pentì perfino del suo interventismo del 1915, riconoscendo che da quell’incoscienza erano sorti tutti i mali d’Italia, fascismo e “controfascismo” in primis. Il suo vecchio amico Giovanni Papini, da anni convertito al cattolicesimo (e dunque non un buon fascista) si rifugiò nel convento della Verna prendendo i voti minori dell’ordine francescano. Si sentiva un “vero abitante di Sirio” nell’Italia repubblicana che ben poco stimava (“un corteo di vermi sopra un gigante morto”). Lo storico ufficiale del fascismo, Gioacchino Volpe, rifiutò di aderire alla Repubblica Sociale. Ai suoi occhi intristiti erano rinate le guerre banditesche fra guelfi e ghibellini mentre gli eserciti stranieri si scannavano sugli Appennini.
Benedetto Croce aveva manifestato coraggiosamente la sua distanza dal regime fin dal 1925, ma la sua opposizione non aveva mai assunto carattere dichiaratamente politico, confinandosi nel ruolo dell’umanista. Dopo il conflitto, sconvolto dalla fine dell’Europa, definì il comunismo "anticristo che è in noi", facendo capire che Stalin e Togliatti lo spaventavano molto più di Mussolini. Fra chi invece si sarebbe posizionato a fianco del Pci negli anni futuri c’era Alberto Moravia. Neanche lui, però, era stato partigiano; anzi ricordò sempre come il periodo più bello della sua vita quello trascorso da esule imboscato nella campagna ciociara, mentre Roma “città aperta” bruciava.