Etica ed economia, ecco le ragioni che invocano una riforma delle pensioni
25 Ottobre 2011
Dopo un percorso tortuoso ed accidentato il dibattito pubblico italiano sembra finalmente essere arrivato al dunque. Dopo mesi passati a baloccarsi con improbabili strategie sviluppiste, dopo orge demagogiche sull’indispensabilità della lotta all’evasione fiscale, dopo rigurgiti anticapitalisti sulla bontà dell’imposta patrimoniale, da ieri il tema al centro della scena è (per l’ennesima volta) quello della riforma delle pensioni.
Certo la cosa sa un po’ di deja vu. Sono quasi vent’anni che l’Italia si dimena affannosamente sulla questione pensionistica. Anni nei quali ai grandi disegni di riforma sono seguiti interventi di portata minore, utili certamente ma non risolutivi, quando non vere e proprie controriforme (come quella del Ministro Damiano della scorsa legislatura). Ma ancorché usurato il tema mantiene una sua oggettiva centralità e rappresenta un nodo che deve comunque essere affrontato. Dal nostro punto di vista, due sono le ragioni fondamentali che militano a favore di una rigorosa riforma delle pensioni. Un argomento di natura economica ed uno di natura morale.
Dal punto di vista economico occorre tenere ben presente che il nostro Paese si trova costretto in una situazione apparentemente paradossale. L’Italia è obbligata (si badi non dai cattivi eurocrati della BCE ma dalle spontanee dinamiche dei mercati e dalla contestuale crisi economica internazionale) a compiere un’operazione quasi impossibile. L’Italia deve risanare il proprio bilancio pubblico (gravato da uno spaventoso debito accumulato in decenni di politiche allegre) e, al contempo, deve cercare di riavviare i processi di crescita e di sviluppo economico. Alcuni osservatori e molti politici hanno in questi mesi messo l’accento su uno solo dei due corni del problema. Senza i conti in ordine non c’è salvezza, gridano gli uni. Senza sviluppo non c’è speranza, obiettano gli altri. Ma sbagliano entrambi. E’ necessario azzerare il disavanzo ed avviare un percorso di rientro dal debito, altrimenti la speculazione finanziaria metterà in ginocchio l’Italia costringendoci a pagare un premio per il rischio Paese sempre più alto. Ma è altrettanto necessario innescare il meccanismo dello sviluppo senza il quale, anche se avremo raggiunto gli obiettivi di finanza pubblica, il Paese sarà comunque in ginocchio.
La politica è cioè chiamata ad un compito titanico. Coniugare rigore del bilancio e rilancio della crescita. Un’operazione quasi impossibile. Quasi, appunto. Tra le voci di spesa importanti del bilancio pubblico ce ne è una, ed una sola, la cui riduzione non determina di per sé effetti recessivi. E quella voce è per l’appunto la spesa pensionistica. La compressione di qualunque altra voce, così come l’aumento delle entrate pubbliche, determina un’automatica riduzione delle risorse a disposizione dei cittadini o delle imprese e quindi contribuisce a deprimere l’economia. Se invece si interviene sulle pensioni, ad esempio, spostando in avanti l’età pensionabile non si chiede nessun sacrificio economico. Si chiede solamente a chi ha maturato, o avrebbe maturato da qui a poco, i requisiti per andare in pensione, di lavorare qualche anno di più. Un sacrificio “esistenziale” assai meno negativo per il sistema economico. La riforma delle pensioni è cioè l’unica politica di contenimento della spesa pubblica perfettamente compatibile con una politica “sviluppista”. Anzi, spostare in avanti l’età del pensionamento di per sé aiuta in qualche modo i processi di sviluppo perché allarga il numero di coloro che lavorano o cercano lavoro. Forse ne soffriranno i cagnolini che non potranno più essere portati al parco durante la giornata lavorativa. Forse ne soffriranno i bambini che non potranno più restare durante il giorno fra le calde coccole delle nonne ma dovranno varcare le fredde porte dell’asilo. Ma certamente non ne soffre il sistema economico.
Naturalmente anche i sacrifici esistenziali hanno la loro importanza e non possono essere dimenticati dalla politica. Ma qui viene in soccorso l’argomento morale. Sul tema della riforma delle pensioni volteggia uno strano animale che viene spesso utilizzato in modo del tutto improprio: i diritti quesiti. Sia chiaro, per un buon liberale, quello dei diritti quesiti è tema importante perché traduce in termini giuridici un’esigenza fondamentale. L’esigenza di tutelare l’affidamento dei cittadini nei confronti delle leggi, di rispettare la certezza del diritto non solo nello spazio ma anche nel tempo. Se lo Stato adotta un certa disciplina dalla quale potrò ricavare utilità ad un certo tempo, è inammissibile che il medesimo Stato intervenga a metà del gioco ponendo nel nulla anche per i periodi già trascorsi le promesse che aveva formulato e sulle quali io avevo basato le mie scelte. Così sarebbe inammissibile che lo Stato intervenga riducendo le pensioni in godimento. O sarebbe inammissibile anche riformare le pensioni future prevedendo che gli anni contributivi già passati possano essere riconsiderati con nuovi (e peggiori) criteri di calcolo.
Ma non vi è nessun diritto quesito che impedisca di riformare i criteri di calcolo per i periodi contributivi a venire o di spostare in avanti l’età pensionabile. Ed anzi interventi del genere appaiono addirittura necessari alla luce di un altro valore morale che non può essere dimenticato dalla politica. Il valore dell’equità generazionale. Oggi un buon numero di italiani, tutti coloro che hanno iniziato a lavorare dopo il 1995 sanno che potranno andare in pensione solo a 65 anni (in realtà a 67) e che a quell’età potranno godere di una rendita calcolata con criteri assai sfavorevoli. Potranno sperare di avvicinarsi al trattamento pensionistico dei loro genitori solo se avranno per tempo attivato una pensione complementare, rinunciando ad una quota del proprio reddito o ad una parte della somma che sarà loro corrisposta alla fine del rapporto di lavoro. Ma se non in una proiezione futura, ma già oggi, sono cambiate le condizioni di sostenibilità del sistema previdenziale per quale oscura ragione una fascia di cittadini deve esserne immunizzata con riferimento non agli anni passati ma a quelli a venire?
In realtà, nonostante la vacuità del pensiero politicamente corretto e la retorica del sindacato, la più evidente violazione dei principi di uguaglianza, di equità fra le generazioni e di universalismo è oggi rappresentata proprio dal nostro sistema pensionistico. E sono proprio queste ragioni etiche che rendono oggi non solo legittimo ma addirittura opportuno chiedere ad una parte della collettività il sacrificio esistenziale di lavorare qualche anno di più e contribuire così a dare un futuro ai propri figli!