Il governo scivola sull’art.18 senza capire che va reinterpretato, non abrogato
27 Dicembre 2011
L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che si applica alle imprese con più di 15 addetti, e che dice che nessuno può esser licenziato senza giusta causa o fondato motivo, è tornato al centro della controversia sul diritto a licenziare: ma l’attuale governo è titubante . Esso ha anche commesso l’errore di voler fare la guerra all’articolo 18, come se fosse in sé deprecabile, anziché sostenere che esso è stato stravolto e che non si tratta di abrogarlo, ma di interpretarlo in modo corretto, rispetto al suo spirito originario e al vigente Trattato dell’Unione europea, così come modificato dopo la costituzione dell’Unione monetaria.
Possono esistere molte ragioni che si possono definire “giusta causa” o “fondato motivo”, che sarebbero ammesse dall’articolo 18, così come a suo tempo concepito, per consentire il licenziamento ma che non lo sono a causa della sua attuale interpretazione. Si tratta , in primo luogo del diritto di licenziare i lavoratori infedeli, che non hanno rispettato la causa del contratto, che consiste nella effettuazione della loro prestazione, in cambio della retribuzione pattuita. I lavoratori che, ripetutamente si assentano da luogo di lavoro senza ragione, che fingono di lavorare ma non lo fanno, che sono disattenti e negligenti e così danneggiano la produzione o fanno perdere all’impresa clienti e fornitori, quelli che rubano o commettono altri reati nella attività di lavoro, dovrebbero poter esser licenziati per giusta causa.
Ed ecco ora un elenco di “fondati motivi” per cui il datore di lavoro dovrebbe poter avere diritto di licenziare il lavoratore: qualora non sia più in grado di avvalersi di quel personale per difficoltà economiche che gli impongono di ridurre l’offerta, per un mutamento delle tecnologie aziendali, per esigenze di riorganizzazione dettate dalla necessità di ridurre i costi o di modificare l’offerta; ed anche qualora sia venuto meno il rapporto di fiducia con il lavoratore perché questi ha commesso reati fuori dal luogo di lavoro o perché il reato che lui ha compiuto nel luogo di lavoro, benché non ancora accertato con una sentenza definitiva di condanna, pur tuttavia è di natura palese o perché la sua condotta ancorché non sia catalogabile come un reato appare moralmente condannabile secondo le regole ordinarie della nostra società, come nel caso delle molestie sessuali che un lavoratore pratichi verso colleghe.
Ma nella attuale interpretazione non si possano licenziare i lavoratori che hanno commesso furti di lieve entità o furti palesi prima della sentenza definitiva di condanna o lavoratori sistematicamente assenteisti, né lavoratori che hanno messa incinta una lavoratrice con atti sessuali nella toilette dell’azienda, durante l’attività di lavoro, né lavoratori in esubero, se non in casi particolari, né lavoratori che hanno insultato in internet la propria azienda o il loro capo.
Lo statuto dei lavoratori è stato concepito dal Ministro del Lavoro Giacomo Brodolini, socialista liberale (proveniente dal partito d’azione) ,vice segretario nazionale del PSI, alla fine degli anni ‘60 , ma vide la luce con la legge n. 300 del 20 maggio 1970, recante "Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro , dopo che Brodolini era morto, a causa del tumore che lo minava . Brodolini è stato dipinto da una agiografia para-comunista e vetero-sindacalista come un fautore dell’attuale interpretazione che se ne fa, di garanzia a oltranza dei posti di lavoro, ma ciò è completamente falso. Lo scopo di Brodolini era quello di tutelare i diritti di libertà, come si vede sin dal titolo dello statuto .
L’autore in sede tecnica di tale testo giuridico fu il professore di Diritto del Lavoro Gino Giugni con un testo sostanzialmente approvato da Brodolini ma forse non accompagnato dai chiarimenti che Brodolini avrebbe desiderato fossero posti allo statuto. Giugni, comunque, aveva un orientamento diverso da quello di Brodolini e le sue elaborazioni successive non rappresentano il pensiero di Brodolini. Io lo posso testimoniare perché oltre che essere amico di Giacomo, ne ero anche il consulente economico quotidiano. Soggiornavamo entrambi all’hotel Raphael a Roma. Io ero a Roma in trasferta per i miei compiti di membro della Giunta esecutiva dell’Eni e di collaboratore (non retribuito) del Ministro del Lavoro e del vicesegretario del partito e lui perché, colpito dal tumore, aveva bisogno di cure costanti e non poteva più vivere in casa. Quando si recava al suo ufficio al partito, ci andava a piedi , perché era in via del Corso non lontano dall’albergo. Io lo tenevo sottobraccio, perché lui, che aveva appena avuto l’iniezione, prima di uscire, stava meglio , ma aveva bisogno di aiuto per camminare. Lottava con il tempo, voleva attuare il suo programma, prima di morire. Io portavo la sera all’autista del presidente del Consiglio Mariano Rumor, i documenti per la firma urgente del mattino dopo.
A volte, il giovedì li portavo la sera prima che partisse con il vagone letto per il Veneto. Giacomo era stato turbato da un episodio di intolleranza, avvenuto in Sicilia , da parte di un grande agrario nei confronti di un sindacalista della Cgil, militante del Pci, che era impegnato nelle vertenze sui contratti agrari, licenziato in tronco per “dare una lezione” ai braccianti . A noi pareva che fosse importante stabilire i diritti di libertà sindacali, anche se a esercitare l’attività sindacale fossero stati i sindacalisti del Pci, partito che riscuoteva il massimo della nostra antipatia. In particolare Giacomo soffriva della sudditanza del Psi al Pci che lo obbligava anche a comportamenti umilianti , come quello di riscuotere dal Pci un assegno finanziario per il Psi, che, mi diceva lui, forse veniva da Mosca, tramite i commerci Italia-Urss.
Era emersa nel ’68 la questione femminile, e si volevano proteggere le donne dalle molestie sessuali dei datori di lavoro e dai capi e capetti alle cui dipendenze lavoravano. Io approvai in linea di massima l’articolo 18 perché accanto al termine” giusta causa” vi era l’ampio termine “giustificati motivi” che pareva potesse consentire la possibilità di licenziamento per tutte le ipotesi in cui ci fossero valide ragioni economiche. Brodolini era contro l’assistenzialismo e contro il lassismo economico-finanziario. Ad esempio, voleva assolutamente che le pensioni fossero finanziate in regime di pareggio del bilancio e quando fu varata la sua riforma, chiese si aumentasse l’imposta sugli oli minerali per compensare l’onere che essa comportava.
Purtroppo egli non visse abbastanza per spiegare ai sindacalisti che non si fa l’interesse reale dei lavoratori con il metodo assistenzialista che essi hanno adottato per le pensioni e per lo statuto dei lavoratori, stravolgendone il senso.
Si potrebbe argomentare che quella che conta non è la volontà del legislatore, storicamente inteso, tanto più quando di un legislatore che non ha vissuto abbastanza per firmare la propria legge , ma l’interpretazione oggettiva che se ne può fare, sulla base del suo dettato. Ma dopo il Trattato di Maastricht che stabilisce il principio generale del mercato di concorrenza, dovrebbe essere chiaro che quella valida per l’articolo 18 non è la attuale interpretazione ma quella originaria, di tutela dei diritti di libertà.
L’attuale interpretazione contrasta con i principi generali del Trattato Europeo sulla economia di mercato di concorrenza . Una legge interpretazione autentica dell’articolo 18 che stabilisca che è giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l’assenteismo ripetuto, l’ esigenza economica di riduzione del personale o di quel personale, il furto palese prima della condanna definitiva e così via, appare del tutto in linea con lo spirito originario dell’articolo 18 e conforme al Trattato europeo . Aggiungo che è, per altro fondamentale che si stabilisca che il datore di lavoro in tale caso debba erogare a proprio carico una sostanziosa indennità di licenziamento, perché ciò induce le imprese a fare un uso prudente di tale diritto.
Inoltre è da approvare l’attuazione dell’articolo 8 del decreto del governo Berlusconi che autorizza a derogare, con i contratti aziendali, alle attuali interpretazioni dell’articolo 18. Nato come messaggio di pace sociale e di collaborazione fra le parti sociali, lo Statuto dei Lavoratori è diventato uno strumento di lotta e di odio di classe e di dirigismo neo corporativo . Ma , da quello che ho scritto, è chiaro che il superamento dell’attuale significato dell’articolo 18 non richiede affatto l’adozione del contratto unico nazionale di lavoro e il modello danese di tutela sociale a carico dello stato, che impedisce la libertà contrattuale nel campo del lavoro. Esso spostando il costo del licenziamento sulla collettività deresponsabilizza le imprese e genera nuovi oneri per l’economia pubblica, incompatibili con l’economia di mercato, senza dare tutela al principio che “il lavoratore non è una merce”.