Il problema del nostro Paese è che è la politica ad essere andata in default

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Il problema del nostro Paese è che è la politica ad essere andata in default

20 Novembre 2011

Ora che il governo Monti ha ottenuto la fiducia delle Camere ed è quindi nel pieno dei suoi poteri, non c’è che da attenderlo alla prova dei fatti. Tuttavia non si deve far finta di niente: come se quello che è successo in Italia negli ultimi mesi, sia stato un normale avvicendamento al potere, processo fisiologico in tutte le democrazie mature. No, sono avvenute una serie di vicende che mostrano gli aspetti gravemente patologici nel nostro sistema politico: aspetti (quel che è più preoccupante) assolutamente recidivi.

Nel giro di vent’anni, per la seconda volta, si è dovuto ricorrere al commissariamento della politica per far fronte a una situazione di emergenza sul piano finanziario. Un grande filosofo politico del Novecento diceva che è nel porre e nel gestire le situazioni di emergenza che emerge il vero detentore della sovranità: ebbene si deve convenire che in Italia l’esperienza storica successiva al 1989 dimostra che non è la politica, non sono i partiti, quindi i cittadini, insomma non è la sovranità popolare a tenere in mano il pallino del gioco. Lo si era visto nel 1992-93, lo abbiamo rivisto in questo 2011.
Bella scoperta! diranno alcuni: siamo sempre stati un paese a sovranità limitata. Prima abbiamo subito passivamente le logiche della guerra fredda, poi  quelle della costruzione europea, o meglio del direttorio franco-tedesco che la conduce. E’ meglio così! rispondono altri. L’Italia può seguire logiche virtuose solo quando le vengono imposte: è un paese che, per funzionare, deve essere colonizzato, altrimenti prenderebbe il largo dall’Europa e si avvierebbe verso il Sud del mondo. E’ un boccone amaro, ammettono altri ancora, ma necessario: per far fuori Berlusconi e la sua cricca e rimettere il timone del governo in mano all’Italia perbene.

La colpa principale di questo default della politica  è della politica stessa, lo si è scritto anche su questo giornale ed a ragione: la maggioranza parlamentare e il governo hanno mostrato la corda proprio nel momento del massimo pericolo e questo costituisce una condanna inappellabile del loro operato. Lo stesso si può dire della variegata opposizione e dei suoi comportamenti, in parlamento come nel paese: essa non è stata in grado di far funzionare la macchina della politica in modo naturale, con una coalizione che fallisce e un’altra che prende il suo posto (sono  parole di Arturo Parisi). Ma questa impotenza della politica, questa intermittenza della democrazia, non è proprio il problema più grave per l’Italia? Perché se si guardano le cose un po’ dall’alto, la situazione di crisi del sistema politico e la sua incapacità di produrre una classe politica all’altezza  dei grandi problemi del paese non datano da oggi: esse cominciano a manifestarsi dalla fine degli anni Sessanta,  quando le elezioni politiche del 19 maggio 1968 decretarono la non-autosufficienza della formula di centro-sinistra al potere. Ebbe inizio allora quel “consociativismo” che dominò gli ultimi vent’anni della prima Repubblica, a cui è da addebitare la prima esplosione del debito pubblico per venire incontro a tensioni sociali e ad atteggiamenti rivendicativi diffusi, che altrimenti non si sapeva come affrontare e gestire.
Quella classe politica seppe rispondere a una largamente sentita (e giustificata) esigenza di allargamento degli spazi di democrazia, di più forte mobilità sociale, di espansione dei diritti, prevalentemente con l’allargamento dei cordoni della borsa, con il gonfiamento a dismisura della pubblica amministrazione, attraverso assunzioni senza concorso, con la scala mobile senza limiti, con l’uso spregiudicato dell’inflazione. 

Soprattutto è da allora che lo stesso personale politico (di governo come di opposizione) andò deteriorandosi: il sistema, cioè, mostrò la sua incapacità a produrre un ricambio generazionale che mantenesse gli standard precedenti. Da Fanfani e Moro si passò a De Mita e a Goria, da Saragat a Nicolazzi, da Malagodi ad Altissimo, da Almirante a Fini, da Berlinguer ad Occhetto. L’unico tentativo di andare in controtendenza, quello di Craxi, mostrò nel costume politico che gli fu proprio una contraddizione insuperabile.

Si deve aggiungere che un tale deterioramento era in sintonia con quanto stava avvenendo nel paese. Per dirla in breve: come la classe politica non ha saputo gestire un processo di democratizzazione se non con una “politica delle mance”, così la società italiana nel suo complesso non ha retto agli effetti morali della secolarizzazione. Quando parlo di “secolarizzazione”, alludo a un processo di disincanto non solo in campo religioso, ma anche in quello ideologico: insomma il militante del PCI che smette di andare in sezione per starsene in casa a guardare le telenovelas brasiliane e i nuovi programmi della televisione commerciale. Si credeva di assistere a una laicizzazione diffusa del sentire, ne è invece risultato uno “sbracamento” complessivo, il venir meno delle appartenenze, un rifugiarsi nel “particulare” e nell’effimero. Anche questi erano processi per larga misura inevitabili e comuni ad altri contesti nazionali, ma che in Italia hanno assunto un’incidenza particolare (e disastrosa), proprio perché non governati consapevolmente da una classe politica e intellettuale all’altezza della situazione.
Classe intellettuale, appunto: un discorso analogo a quello qui abbozzato si potrebbe fare per gli ambienti della cultura e della stampa, e per quelli economici (ma si deve parlare di una cosa per volta). Il problema è complessivo, di classe dirigente, ed è semplicemente ridicolo da parte degli uomini dell’establishment accademico-mediatico-finanziario il “noli me tangere” intimato alla casta dei politici.  
Ma ora abbiamo un «governo dei professori» e c’è da stare tranquilli, ci viene detto: «I am obliged to confess  – scriveva sessant’anni fa William F. Buckley jr – I should sooner live in a society governed by the first two thousand names in the Boston telephone directory than in a society governed by the two thousand faculty members of Harvard University».  Mi auguro che  una volta tanto il prof. Monti e i suoi colleghi lo smentiscano.