L’ineluttabile senso del sacro di Aleksandr Solženicyn
04 Marzo 2012
di Luca Negri
Rischio costante dell’opera di Aleksandr Solženicyn è di finire confinata al mero interesse storico, memorialistico, di testimonianza. Questo perché il suo monumentale “Arcipelago Gulag” rimane uno dei testi imprescindibili per comprendere il secolo scorso. In quelle pagine la Storia incontra veramente le storie individuali, l’epica diventa diario e viceversa: un grande romanzo, anche se non ha bisogno di ricorrere alla finzione. Infatti Solženicyn fu fin dal principio un grande narratore, un romanziere in cui si davano appuntamento i talenti di predecessori come Gogol’, Dovstoevskij, Tolstoj (stessa cosa succedeva in Pasternak, seppur in tutt’altro modo). Aveva ragione Cristina Campo quando dichiarò a metà degli anni ’70 “oggi Solženicyn è qualcosa che ti fa piegare le ginocchia”.
Difatti siamo finiti in ginocchio anche leggendo il primo romanzo, l’incompiuto “Ama la Rivoluzione!”, finalmente disponibile in Italia grazie a Jaca Book. Come tutti i romanzieri esordienti, Solženicyn fa un po’ di autobiografia; con la differenza che all’età di trent’anni, aveva già fatto tesoro di esperienze notevoli, e terribili. La principale, quella che segnerà senza dubbio la sua esistenza, avvenne al fronte, mentre combatteva contro le armate di Hitler; in una lettera ad un amico si lasciò scappare qualche dubbio sul modo in cui Stalin stava conducendo la guerra. Bastò tanto poco per gettarlo nell’abisso dei campi di prigionia e dei cantieri schiavisti messi in moto dal “socialismo reale”.
In quelle condizioni visse per ben otto anni, con periodi più o meno duri, se ha senso distinguere nel livello di male che può fare il totalitarismo. In un intervallo di pace fra giorni più duri, durante il 1948, si mise all’opera per raccontare la storia di un tipo come lui, reso appena un po’ più grottesco e comico; sempre laureato in materie scientifiche, sempre innamorato della letteratura, avido di sapere e d’esperienza, pieno di ideali. In comune anche un sospetto di tumore (tragica realtà che Solženicyn dovrà affrontare, dedicando a quell’ordalia uno dei suoi romanzi più belli, “Padiglione Cancro”) che rende inabili al servizio militare in prima linea.
Così il protagonista Gleb Neržin rimane a lungo lontano dal conflitto, dietro le quinte della Storia per buona parte del romanzo. Eppure vorrebbe tanto partecipare alla Grande Guerra Patriottica, sente che sarà la scintilla che permetterà lo scoppio della rivoluzione mondiale, l’esportazione del bolscevismo all’estero. È un convinto comunista di ventitré anni, conosce bene formule matematiche e ideologiche, ha letto tanti libri e sente di aver ben chiare tante verità. Dovrà ricredersi, ed imparare ben altre cose, non solo ad avere a che fare con i cavalli in compagnia dei cosacchi del Don. Invece il libro nello zaino, scelto partendo da casa verso l’avventura, un saggio di Engels su “Rivoluzione e controrivoluzione in Germania”, rimarrà intonso, non ci sarà tempo per leggerlo, mentre gli schemi rassicuranti del materialismo dialettico crolleranno sotto i colpi della realtà. Nonostante Gleb sia molto ingenuo e sognatore (potrebbe ricordare il Candido di Voltaire che si crede nel migliore dei mondi possibili) riesce poco a poco a rendersi conto della squallida e tremenda realtà che si cela dietro il mito inculcato a scuola alla sua generazione, quella nata nel 1917, coetanea della Rivoluzione. Scopre che il regime arresta i cittadini solo per vago sospetto o per alimentare panico, vede con i suoi occhi la corruzione, l’improvvisazione nel condurre la guerra e nel giocare con le vite dei soldati.
Solženicyn non terminò mai il romanzo, lasciò solo appunti. È abbastanza evidente che il finale, con Gleb finalmente sul campo di battaglia, nella conquista di Orël, non sarebbe stato edificante per l’Urss. Gleb, come prima di lui Solženicyn, aveva imparato a diffidare della civiltà sovietica e si era riaccostato timidamente a cose più antiche e più intime, più universali e personali. Era capitato che uno sventurato come lui gli avesse regalato un tozzo di pane per placare la sua fame. Così gli sovvenne, ricordo d’infanzia lontana, il verso del Padre Nostro dove si chiede a Dio il pane quotidiano. Poi la preghiera riaffiorò tutta. Ed ecco affacciarsi l’altro grande tema di Solženicyn e dei suoi predecessori: la religione, l’ineluttabile senso del sacro. In “Ama la Rivoluzione!” affiora appena, ma pulsa in tutta l’opera, annuncia il suo futuro emergere negli scritti della maturità. Anzi, Gleb appare ancora più interessante se si vede in lui il devoto alla patria comunista che scopre ciò che solamente merita devozione. Ci sembra l’ulteriore dimostrazione del fatto che la prassi marxista-leninista è stata la più grande eresia del cristiana, il tentativo prometeico e luciferico di sostituire il Vangelo e la Chiesa con la religione civile del socialismo di Stato. Ecco perché leggendo un romanzo simile ci si ritrova con le ginocchia piegate.