L’intellettuale deve insegnare che non esiste globalizzazione senza identità
05 Febbraio 2012
Molti oggi sostengono che l’accordo sulla possibilità di una migliore comprensione reciproca tra gli esseri umani è venuto meno. La fine sarebbe dovuta al risorgere di odi repressi, i quali trovano la loro fonte nelle differenze legate alle identità nazionali, etniche e religiose. Secondo questa linea di pensiero ci troveremmo insomma di fronte alla fine delle concezioni universalistiche che hanno caratterizzato gli ultimi secoli. A ciò si aggiunge lo scetticismo derivante dal crescente successo delle idee postmoderne sul piano filosofico e politico.
Vaclav Havel aggiunse dal canto suo che ora viviamo certamente in un’unica civiltà globale la quale, tuttavia, altro non è che un “sottile strato di vernice”, destinato a coprire o nascondere l’immensa varietà di culture, di popoli, di mondi religiosi, di tradizioni storiche e di atteggiamenti secolari brulicanti al di sotto di esso. E’ una bella immagine, dovuta alla penna di un poeta divenuto poi anche uomo politico. E si tratta di un’immagine non solo bella, ma pure calzante poiché riflette entro certi limiti uno stato di cose esistente.
In realtà, esaminando la storia è facile accorgersi che il declino delle concezioni universalistiche non è specifico della nostra epoca. La riaffermazione delle identità nazionali, etniche e religiose è un fenomeno ricorrente che si verifica ogni volta che qualche impero sovranazionale, più o meno tirannico, crolla. Né appare fondato considerare il risorgere delle identità come segnale di un definitivo abbandono del cosmopolitismo. Fenomeni di questo tipo sono già avvenuti, a ritmo ciclico, nel passato, e non dovrebbero indurre a un eccessivo pessimismo circa il rinnovato successo in futuro di ideali che puntino a unire piuttosto che a dividere, a esaltare i fattori che ci accomunano in quanto esseri umani piuttosto che a sottolineare gli elementi che ci separano.
La perdita di fiducia nel cosmopolitismo e l’attuale declino delle idee universalistiche non sono fenomeni la cui origine possa farsi risalire a circoli intellettuali. Essi esprimono, piuttosto, la percezione diffusa che il futuro non possa essere migliore. E’ difficile, oggi, trovare qualcuno che creda veramente nella possibilità di dar vita a una società senza classi. E non intendo tale espressione in senso strettamente marxista. Parlo della speranza che cessino le sperequazioni tra le opportunità di cui possono fruire gli individui delle varie nazioni, e anche all’interno di una sola nazione.
Al contempo è opportuno ammettere che gli intellettuali giocano un ruolo di rilevo nel mutamento dei paradigmi. Senza dubbio sono i mutamenti storici a innescare lo spostamento dei loro interessi. L’utopia del cosmopolitismo è forte quando le condizioni storiche ne consentono diffusione ed espansione. Ma gli intellettuali non registrano soltanto ciò che accade intorno a loro, essendo influenzati dal clima di speranza o di pessimismo che respirano. Sono invece costruttori di teorie, che spesso anticipano il corso degli eventi.
Quando pensare a una società senza classi appariva a molti normale, l’interesse per la sopravvivenza delle identità sembrava un problema di minore importanza. Non si trattava certo di poco rispetto per le specificità nazionali, etniche e religiose. Si pensava, piuttosto, che la diffusione di una visione del mondo e di una cultura “globali” avrebbe comportato tanti e tali vantaggi da mettere in secondo piano l’interesse per la sopravvivenza delle identità. Che importa la difesa delle proprie specificità, se l’obiettivo da raggiungere è una società sovranazionale in cui vi sia davvero l’uguaglianza delle opportunità? L’aspirazione universalistica fonda la speranza che il futuro vada costantemente migliorando.
E’ un fatto che universalismo e cosmopolitismo si sono incarnati, soprattutto nel secolo scorso, in due diverse ideologie. Da un lato la tradizionale visione marxista della società mondiale senza distinzione di classi o razze, frutto di una rivoluzione seguita dall’abolizione della proprietà privata. Dall’altro una visione del mondo altrettanto influente. Era opinione assai diffusa in Occidente dopo il 1945 che la pace appena conseguita, unitamente allo sviluppo scientifico abbinato a quello tecnologico, avrebbero reso possibile una prosperità economica prima inimmaginabile entro la cornice del libero mercato. Il “sogno”, se così lo vogliamo chiamare, era che la prosperità economica avrebbe a sua volta innescato un processo globale di rinnovamento politico, facendo sì che alla fine l’ordinamento liberal-democratico si estendesse al mondo intero. Senza coercizione, ma in virtù della forza di persuasione generata dal successo pratico.
La rinnovata prosperità economica avrebbe reso possibile una globalizzazione della democrazia politica anche negli angoli più remoti del pianeta, assicurando alle generazioni future l’uguaglianza delle opportunità. E si noti che simili idee non erano diffuse soltanto tra gli intellettuali di professione. Molti politici firmatari della Carta delle Nazioni Unite avevano chiaramente in mente questo scenario venato di utopia.
La scena è nel frattempo molto cambiata. L’esperimento marxista, volto a trovare un sostituto dell’economia di mercato, è fallito, anche se vanta tuttora dei sostenitori. Tuttavia, l’idea del libero mercato come panacea di tutti i mali sociali non ha incontrato sorte migliore. Questo perché tra sviluppo economico e uguaglianza delle opportunità non esiste una connessione meccanica o necessaria.
Il cuore della globalizzazione risiede nel fatto che la situazione dei cittadini di uno stato nazionale sfugge ormai alle leggi di quel particolare stato. Prima le leggi nazionali controllavano, anche a fini sociali, i movimenti di denaro all’interno dei confini. Ora non è più così. Non v’è modo di controllare che il denaro guadagnato o risparmiato in un Paese venga speso o investito entro i suoi confini. L’assenza di un governo mondiale comporta che gli interessi di tutti non possono essere tutelati. E’ interessante, allora, chiedersi se degli intellettuali portatori di una “cultura globale” abbiano un ruolo – e se sì quale – nel combattere una simile situazione.
Il compito dell’intellettuale è di grande portata. L’intellettuale è un costruttore di teorie, anche se non dovrebbe mai dimenticare le condizioni concrete in cui opera. Deve attirare l’attenzione sulla necessità di una politica globale, in grado di contrastare i privilegi delle oligarchie. Dovrebbe anche drammatizzare i cambiamenti dell’economia mondiale che conseguono dal processo di globalizzazione, e rammentare senza stancarsi che soltanto istituzioni politiche globali sono in grado di contrastarne gli effetti perversi. Il problema, insomma, non è quello di combattere la società globale, ma di dar vita a una società globale giusta. Il termine “globalizzazione” è stato negli ultimi anni caricato di significati negativi, è diventato una sorta di feticcio che riassume in sé i mali del mondo. Tutto questo è sintomo di grande confusione. Non si sottolineano mai a sufficienza gli aspetti positivi di un processo di globalizzazione correttamente inteso.
Non necessariamente globalizzare significa omogeneizzare a forza o eliminare differenze e identità specifiche. Al contrario. Può voler dire, invece, far nascere una società mondiale in cui il rispetto di differenze e identità diventi normale. Ed è proprio su questo piano che gli intellettuali svolgono un ruolo chiave. Quando si parla, per esempio, di fondamentalismo religioso, si dimentica spesso che nei paesi in cui quel tipo di fondamentalismo è forte esistono gruppi di intellettuali che si battono a rischio della vita contro ogni tipo di chiusura. Essi non vedono perché le differenze religiose debbano condurre alla prevaricazione degli altri.
Abbiamo veramente bisogno di rinunciare alla preservazione delle identità e delle differenze se ci muoviamo nella direzione di una politica e di una cultura globali? Molti ritengono di sì, e danno per scontato che la globalizzazione comporti proprio l’annullamento di identità e differenze. Non è così. La protezione delle identità e delle differenze non ha bisogno di una politica speciale se ci muoviamo nella direzione di una globalizzazione intesa in senso corretto. In una società globale le identità vengono preservate perché arricchiscono il quadro complessivo. In una società di quel tipo vale la tesi di John Stuart Mill: ciascuno ottiene ciò cui ha diritto, ma non deve impedire agli altri di ottenere le stesse cose.
Noi tutti condividiamo, in quanto esseri umani, un’enorme quantità di conoscenze. Certo ci sono anche molte differenze, ma non accade mai – come sostengono alcuni filosofi – che vi siano linguaggi e visioni del mondo “incommensurabili”, cioè così diversi da precludere qualsiasi possibilità di confronto. Ha senso parlare di differenza solo quando esiste la possibilità di comunicare confrontando le nostre opinioni, e il sogno di una cultura globale non deve essere abbandonato.