Hugo Cabret, un tuffo nella memoria del cinema firmato Martin Scorsese
04 Febbraio 2012
Può un racconto per ragazzi, bello ed intelligente quanto si vuole, diventare un capolavoro cinematografico, con la possibilità di assicurarsi l’intero piatto nella notte degli Oscar, ormai imminente? La domanda sorge spontanea vedendo il nuovo film di Martin Scorsese, “Hugo Cabret”. Scordatevi dello Scorsese alle prese con psiche, follia, spietati e inquietanti criminali. Scordatevi i preti, le italiane ancora col fazzoletto, i piccoli trafficanti e delinquenti di Little Italy. Scordatevi il sontuoso guardaroba di Robert De Niro, padrone della città del vizio e del gioco La Vegas. Scordatevi il sangue, armi, rapine, droga. macellerie varie. E scordarlo non è un male. Poiché in “Hugo Cabret” entriamo nel mondo magico della Parigi della Belle Epoque, quando il cinema si chiamava cinematografo. Il dodicenne Hugo, orfano, vive solo, nascondendosi nei meravigliosi anfratti della stazione di Montparnasse. Numerosi e maestosi orologi scandiscono il trascorre del tempo nella stazione, e Hugo s’industria al meglio per farli funzionare. Come tutti i ragazzi Hugo ha un grande sogno: completare la costruzione dell’uomo meccanico che il padre non ha potuto ultimare. L’uomo ha lasciato al figlio un prezioso libretto di disegni. Per riuscire nell’impresa Hugo ha bisogno di ingranaggi, che ruba ad un anziano giocattolaio. Un vecchio signore scontroso, proprietario del negozio situato in un “passage”, tempio moderno di ferro, vetro e innovativa architettura, costruito per mettere a riparo gli acquirenti, sempre più indaffarati a fare acquisti, dal cattivo tempo della strada. Il vecchio e accigliato giocattolaio non è un semplice commerciante: è un genio. Anzi è il Genio, Georges Méliès, un tempo teatrante e illusionista, poi inventore del cinema di fantascienza e famoso in tutto il mondo, oggi arnese malmesso caduto nel dimenticatoio. Un ragazzino solo. Un vecchio solo. La magia delle macchine meravigliose, e fra di esse la più meravigliosa di tutte: il cinema. Martin Scorsese in maniera davvero sorprendente ha deciso di portare sullo schermo, servendosi della tecnologia tridimensionale, il fortunato racconto per ragazzi “La straordinaria invenzione di Hugo Cabret” dello scrittore e disegnatore americano Brian Selznick. A molti commentatori il tuffo nella memoria del cinema di Scorsese ha fatto storcere il naso. Anche il pubblico americano non si è proprio precipitato ad affollare le sale (uscito alla fine di novembre ha incassato la cifra non certo ragguardevole di 60 milioni di dollari, e la promozione dell’Oscar è l’ultima occasione per il rilancio). Le undici nomination agli Oscar per il film di Martin Scorsese, poi, sono apparse una autentica esagerazione. Per anni al regista di “Taxi Driver” le porte del tempio hollywoodiano sono state chiuse, con proterva ostilità. Ora, quando non serve più, le aprono invece senza sufficiente motivazioni. Dunque “Hugo Cabret sarebbe soltanto una operazione furba, costruita a tavolino per nobilitare un prodotto convenzionale con la firma di un regista-artista. In parte questa contestazione è fondata. Ma alla fine un tale dilemma lo risolve soltanto il film: è gradevole o pesante? Geniale o scontato? Divertente o noioso? “Hugo Cabret” scorre veloce. Ha un’apertura incantevole, che rimanda direttamente alla sbalorditiva meraviglia che si poteva provare nel cinema delle origini, quando la parola non era in grado di indirizzare e condizionare la visione. Di sensazionale c’è poco, ma c’è poco anche di scontato. Martin Scorsese in un recentissimo libro ha ricordato come nella sua carriera cinematografica si debba tirare una linea di demarcazione tra film realizzati per esigenze produttive e film ostinatamente voluti. Certo, alla luce di questa osservazione, viene il sospetto che “Hugo Cabret” non possa essere annoverato nella seconda categoria. Vale però il prezzo del biglietto. Compresa la sovrattassa per gli occhialini.