
La “Dottrina del Padrino” per l’America del XXI Secolo

04 Dicembre 2011
di Luca Negri
I manuali classici per l’arte della guerra, di Machiavelli, Clausewitz e Sun Zu, hanno ancora molto da insegnare. Anche se dai tempi del medioevo cinese, del rinascimento italiano e delle battaglie napoleoniche il modo di combattere è cambiato molto per via della tecnica. Le ultime generazioni, però, sono state plasmate più dalle immagini che dalla parola scritta, dallo schermo che dalla pagina. E dunque anche un film può insegnare molte cose, trasmetterle in maniera più diretta di quanto possa fare uno stagionato trattato prussiano.
Ad esempio, due giovani statunitensi esperti di questioni internazionali, John C. Hulsman e A.Wess Mitchell, hanno scoperto che il governo degli Stati Uniti può trovare ispirazione ne “Il Padrino” di Francis Ford Coppola (1972). Ne hanno parlato in un articolo apparso sul National Interest che ha fatto talmente furore da diventare un libro, pubblicato in Italia dalle edizioni Liberilibri di Macerata con il titolo La dottrina del Padrino. Non si tratta ovviamente, come qualche antiamericano inveterato potrebbe pensare, di sposare in toto la mentalità e i modi spicci dei mafiosi. Hulsman e Mitchell fanno riferimento precisamente alla trama del film, anche se dimenticano di scrivere che fu tratta dal magnifico romanzo omonimo scritto da Mario Puzo.
Per chi non ricordasse la storia, in sintesi le cose vanno così: Don Vito Corleone subisce un attentato e viene messo fuori gioco. È stato il collega Sollozzo ad attaccare il capo della famiglia rivale, ora l’egemonia dei Corleone sulla malavita di New York è in serio pericolo. La situazione calza a pennello con gli Usa post 11 settembre 2001: un attacco improvviso, il segnale allarmante della fine di un’epoca di potere incontrastato. Sono i tre figli di Don Vito che devono decidere come reagire, e in fretta. Ognuno di loro ha un’idea differente di come gestire la crisi. Guarda caso, sono posizioni che si sono rispecchiate nella politica americana degli ultimi anni. Almeno quelle dei due figli maggiori, mentre quella del terzo, Michael, è tutta da costruire nella storia americana futura ed è quella vincente nel romanzo di Puzo e nel film di Coppola.
Tom, il Corleone “adottato”, di sangue irlandese, legale della famiglia e principale ambasciatore diplomatico, propone di trattare subito col nemico. Gli affari sono affari, inutile scatenare nuove macellerie, ci rimetterebbero tutte le famiglie mafiose della città. Una posizione che Hulsman e Mitchell paragonano a quella di Obama, Ilary Clinton e di tutti i “liberal institutionalist” democratici, convinti che con le relazioni fra gli Stati tutto si sistemi, prima o poi, soprattutto se l’America dà il suo ok dall’alto. Obama, in sintesi, si comporta con l’Iran esattamente come Tom vorrebbe fare con Sollozzo: trattare, prender tempo.
Sonny, carne della carne del Don, è un tipo decisamente più impulsivo. Per lui non è più il caso di invischiarsi in incontri e mediazioni; i Corleone sono sotto attacco e devono reagire con violenza. Tutte le famiglie, non solo quelle nemiche, devono sapere che le pallottole contro il Padrino devono essere vendicate, che i Corleone sono ancora i più forti; a costo di scatenare l’inferno. Non è difficile trovare qualche parallelismo con l’epoca di Bush, quando i neocon del Dipartimento di Stato non persero tempo nell’attaccare Afghanistan ed Iraq. Reazione eccessiva, impopolare, pericolosa, secondo i due autori del libretto.
È appunto il figlio minore, Michael, ad avere le idee più chiare. Più che altro propone una via di mezzo fra ciò che hanno detto i fratelli. Violenza solo quando serve, mirata, pulita, e va bene. Però occorre stringere nuove alleanze, non inimicarsi gli amici ma anzi farsene di nuovi, trasferire alcuni affari altrove, cercare nuovi spazi.
Solo ispirandosi a colui che nella finzione diventerà il nuovo Don, gli Stati Uniti possono uscire dalla crisi e rimanere attori da primo piano sulla scena mondiale. Con Ahmadinejad andrebbe usata la politica del bastone e della carota, l’alternanza di minacce e proposte. Far capire al resto del mondo che non si vuole certo gettare un’atomica su Teheran, ma mettere bene in testa al regime che i più forti sono ancora gli yankee.
Anche a casa nostra, questo libro può essere di qualche utilità, non solo perché la crisi degli Usa è dell’Occidente intero. Proprio nel panorama della politica italiana qualcuno che ha perso un posizione di salda egemonia potrebbe farne tesoro, soprattutto se per anni gli è stato rinfacciato di essere un mafioso.