Riflessioni tutt’altro che antipolitiche sul ruolo dei partiti in Italia
20 Aprile 2012
I. Credo che l’antipolitica come il qualunquismo siano nozioni da maneggiare con grande cautela. Soprattutto in una democrazia liberale. Si può cedere, infatti, alla tentazione di rimuovere le ragioni che sono alle origini dell’una e dell’altro facendo ricadere l’attenzione sulle manifestazioni, spesso sgangherate, con le quali si affacciano alla vita pubblica. Ritenere la classe politica incompetente o corrotta o l’una cosa e l’altra rientra, infatti, nella libertà di critica che sta a fondamento della ‘società aperta’ e non va trascurato il fatto che nelle accuse che si traducono nella protesta (non sempre pacifica) ci sono elementi di disagio reale. Se si sta male, se manca il lavoro, se si stenta ad arrivare alla fine del mese, non sarà certo colpa dei cattivi governi – la battuta «piove, governo ladro!» ha fatto il suo tempo – ma se durante le tempeste economiche quanti reggono il timone dello Stato, per rimediare alla crisi, non trovano di meglio che svuotare ulteriormente le tasche dei cittadini alleggerendo i ceti più abbienti e facendo affogare gli altri, e non solo metaforicamente, prendersela con l’eterno populismo italico non ha davvero alcun senso. Nel nostro paese, una morale sempre più permissiva e comprensiva induce a sdegnarsi sempre meno per certi reati un tempo considerati infamanti (come la pedofilia che qualche leader libertario, tempo fa, aveva molto cautamente difeso) ma nei confronti dell’evasore fiscale sembra proprio che «pietà l’è morta!». Gli evasori paiono diventati i nuovi untori della nostra società neo-barocca (e che la nostra società sia affetta da barocchismo lo dimostra, tra l’altro, l’elevatissimo numero di leggi e leggine), i topi immondi che razzolano nel formaggio altrui e impediscono al paese di crescere. Intendiamoci, l’evasione fiscale è un reato e come tale va perseguito ma quando tale reato diviene di massa significa che qualcosa non va nella politica economica di un paese, nei rapporti tra stato e cittadini. Se l’uomo della strada chiude il suo piccolo negozio, il suo laboratorio artigianale, il suo ufficio di consulenza per l’eccessivo carico fiscale, divenuto per lui insostenibile, l’antipolitica che dà voce alla sua ribellione diventa un diritto irrinunciabile di libertà.
Si possono avere legittime diffidenze per Beppe Grillo e per il suo stile alla Howard Beale, il protagonista di Quinto Potere di Sidney Lumet (1976) magistralmente interpretato da Peter Finch, ma perché gli elettori dovrebbero preferirgli quei partiti tradizionali (o quanto ne resta) che ci hanno condotto al baratro in cui ci troviamo? Se è vero che Marco Doria pensa a una giornata in ricordo di Carlo Giuliani da tenersi ogni anno e, forse,a intitolargli, come chiedono da un decennio gli ‘antagonisti’, l’odierna Piazza Alimonda, perché al mad comico genovese (mad, in inglese, significa sia ‘pazzo’ che ‘incazzato’) si fanno indossare i panni dell’eversore mentre al docente universitario, benedetto da Nichi Vendola, si riconosce una tale rispettabilità da meritargli l’appoggio anche degli ambienti radical-chic del capoluogo ligure? Sul piano simbolico, se si hanno presenti i principi sui quali si fonda la democrazia liberale, chi è più eversore: Grillo o Doria? Finché i movimenti politici rimangono nell’alveo della legalità, coloro che non hanno mai avuto responsabilità (e colpe) di (mal)governo, hanno la stessa ‘presentabilità’ e gli stessi diritti degli altri. Evocare gli spettri dei movimenti totalitari e dell’antipolitica degli anni trenta potrebbe significare soltanto rafforzare lo status quo, inducendo i cittadini a tenersi la classe dirigente che si ritrovano giacché le alternative sarebbero la fine della stessa democrazia.
In realtà, la ‘fine della democrazia’ non è il prodotto del qualunquismo, delle ‘masse in libera uscita’, che come un torrente in piena, travolgono tutti gli argini istituzionali e le sempre evocate ‘garanzie della libertà’, ma della ‘partitocrazia’ ovvero dell’occupazione della ‘sfera pubblica’ – quella che decide il destino degli individui e dei gruppi sociali – da parte di formazioni politiche e sindacali che rappresentano sempre meno la maggioranza della società civile e del mondo del lavoro. Non intendo, per carità, demonizzare i partiti che per decenni hanno svolto una funzione tanto utile quanto misconosciuta: grazie ad essi, infatti, si sono tenute insieme regioni geografiche e continenti sociali e culturali che, altrimenti, si sarebbero divisi, dopo l’8 settembre e la ‘morte della patria’. Se non ci fossero stati il PCI, la DC, il PSI e altri comprimari minori della Prima Repubblica, in grado di creare legami ideologici e affettivi tra gli individui e i ceti più diversi, cosa avrebbe tenuto insieme un trentino e un cagliaritano, un marchigiano e un piemontese, un ligure e un lucano?
In Italia, è un luogo comune che ha, però, il difetto di cogliere nel segno, è mancato il senso dello Stato ovvero di istituzioni amministrative, giudiziarie, scolastiche etc. imparziali, cioè super partes, e dotate di forza e di legittimità intrinseca. Ma tali istituzioni sono mancate perché non s’è mai davvero costituita una «comunità politica» ovvero un’appartenenza di cui essere orgogliosi e che, nei rapporti con i vicini, i concittadini, i connazionali, facesse passare in secondo piano le divergenze culturali o religiose. Quando ciò è avvenuto, determinante non è stata la ‘nazione’ ma la famiglia – la famiglia naturale o quella artificiale fondata sull’amicizia – come nella poesia di Trilussa che, dopo aver enumerato le opposte militanze politiche e le litigate dei fratelli, racconta come tutti si ritrovino poi seduti attorno alla tavola quando la mamma avverte che ‘so pronti li spaghetti’.
Per l’italiano medio, che aveva idee e convinzioni di ‘destra’, il governo di Romano Prodi non era il suo governo ma il risultato di un colpo di mano dei suoi nemici politici ed è inutile ricordare – alla luce delle tonnellate di fango riversate su Silvio Berlusconi e sui suoi ministri – quanto questo rifiuto di legittimazione politica fosse (ancora più) vero per un italiano di sinistra.
In altri contesti europei, la crisi delle istituzioni trova nella comunità politica un terreno solido che ne garantisce, sia pure non a breve termine, il faticoso superamento: la prima, la seconda la terza, la quarta Repubblica passano ma la Francia ‘immortale’ resta anche se l’identità universalistica e razionalistica che si era data nell’89, col tempo, è destinata a sbiadire dinanzi alle sfide multiculturali; da noi, la fine di un regime politico rischia sempre di far franare la ‘comunità politica’, come dimostra il ripresentarsi del separatismo, quello siciliano degli anni quaranta e quello recente della Lega Nord, nei momenti tragici della nostra storia. A riprova del fatto che ‘forme di governo’e ‘comunità politiche’ rimangono realtà ben distinte e se, in certi casi, sono le prime a fondare le seconde – sono la Magna Carta, il parlamento, l’habeas corpus a fare gli ‘inglesi’: l’Inghilterra senza la filosofia di John Locke non sarebbe più Inghilterra – assai più spesso le comunità politiche’ costituiscono, per così dire, la spina dorsale storica e culturale che sopravvive ai frequenti e impetuosi cambiamenti istituzionali: alla Francia di Napoleone III succede la Francia di Léon Gambetta e poi di Jules Ferry ma la Francia è sempre la Francia, come «Paris c’est toujours Paris». Del resto, nella stessa Inghilterra in cui l’identità etico-politica è un portato delle istituzioni, l’appartenenza riassume una dimensione ‘comunitaria’: la libertà civile e politica non è la libertà dell’«uomo e del cittadino» ma è l’insieme delle libertà, al plurale, che si sono conquistate, nei secoli, i sudditi di Sua Maestà Britannica.
La comunità politica Italia è nata per opera e per virtù di una forma di Stato e di una forma di governo (la monarchia costituzionale sabauda) che ‘divideva meno’ e si è ritrovata quasi in fin di vita per colpa di un regime semitotalitario avventuratosi in una guerra catastrofica.. I partiti hanno creato una rete metallica protettiva, come quella che regge i pavimenti delle case e mette al sicuro gli appartamenti sottostanti, e tale rete ha impedito ai calcinacci e alle piastrelle sempre più consunte dell’identità nazionale di sprofondare in basso.
Questa funzione, però, è stata pagata a un prezzo molto elevato: poiché una comunità politica debole e incerta non poteva sostenere istituzioni di governo forti ed efficienti, non è stato molto difficile per i partiti – associazioni organizzate e ‘motivate’ – impadronirsi de facto dei gangli vitali dello Stato e riempire un vuoto di potere che la natura non ha mai tollerato in nessun campo e tanto meno tollera nello spazio politico. Certo lo Stato di Cavour, di Sella, di Crispi, che aveva dato un po’ di forza alle istituzioni, non venne completamente smantellato (neppure il regime, in venti anni, riuscì a demolirlo del tutto e a ‘fascistizzarlo) ma per buona parte degli italiani, al sud, come al centro e al nord, i diritti ,di cui erano titolari, valevano qualcosa solo se si disponeva di santi in paradiso –le tessere di partito, le giunte comunali ben disposte, i Parlamenti di un certo colore etc. Talora, anche promozioni alle quali si aveva diritto arrivavano con relativa puntualità solo su interessamento del deputato, del ministro, del Presidente dell’ente al quale si apparteneva – anche lui di nomina politica.
Furono, soprattutto, i ‘diritti sociali’ e il ‘Welfare State’ – che dovunque rafforzano la presa dello Stato sulla società civile ma che, a fronte di istituzioni e amministrazioni pubbliche imparziali, non estendono proporzionalmente, in modo minaccioso per i diritti e le libertà dei cittadini, l’ambito di discrezionalità dell’esecutivo – ad aumentare a dismisura il potere dei partiti in Italia. In presenza di banche e di aziende irizzate, le vecchie formazioni politiche risorte sulle rovine della catastrofe bellica, ormai controllavano, direttamente o indirettamente, il 70% dell’economia nazionale: dai consigli di amministrazione degli istituti creditizi agli enti ospedalieri, dalle redazioni dei giornali agli uffici direttivi della Rai, i ‘professionisti della politica’ erano presenti dappertutto sempre più esigenti, sempre più famelici (anche per gli apparati e le numerose clientele elettorali da mantenere).
Oggi, dopo il secondo ’89 e in seguito ai vincoli posti dall’adesione alla comunità europea alla libertà di manovra dei governi, i partiti si sono oggettivamente indeboliti, non hanno più ‘trippa da distribuire ai gatti’, e si vedono costretti a chiedere il finanziamento pubblico, non potendo più disporre, come una volta, di generose sovvenzioni di aziende a capitale misto (privato e pubblico), di imprenditori e di banchieri di area, di iscritti facoltosi disposti a pagare di tasca propria l’affitto di una sezione o l’acquisto di mobili, libri e periodici. Non potendosene aspettare molto, la gente è portata sempre di più a diffidare di leader che, al governo o all’opposizione, non riescono a essere di aiuto per lei. La vecchia ‘forma partito’, quindi, è avviata sul viale del tramonto non perché ‘ha fatto il suo tempo’ (frase che non significa niente) ma perché il suo peso sociale, politico e culturale si è drasticamente ridotto.
Non per questo, però, si rafforzano le istituzioni. La popolarità (relativa) di Sandro Pertini, di Francesco Cossiga, di Giorgio Napolitano non era, non è, legata alla crisi dei partiti ma alla personalità degli inquilini del Quirinale e, oserei dire, a quel tocco leggero di antipolitica che i tre citati presidenti della Repubblica hanno sfoderato in certe circostanze (in forma di sprone alla classe politica affinché non rinviasse riforme inderogabili e venisse incontro alle aspettative del paese, dei lavoratori e, soprattutto dei giovani, tutte ‘espressioni di buoni sentimenti’ poco costose e di sicuro effetto ma anche la retorica civile può avere una sua utilità e contribuire, almeno un po’, a rimuovere l’alienazione politica dei cittadini nei confronti delle istituzioni). Non è il ‘carisma d’ufficio’ che ha conquistato i cuori di molti italiani – anche se fossero vissuti nei terribili ‘anni della crisi’, Giovanni Gronchi, Giovanni Leone e Antonio Segni non sarebbero stati così amati e popolari, come non lo è stato, del resto, in un’epoca più vicina, Oscar Luigi Scalfaro – ma la sensazione che al Quirinale ci fosse qualcuno in grado di capire i loro problemi, i problemi della ‘gente comune’.
(Prima parte)