Strade e monumenti. Dove l’insidia totalitaria tende un agguato al passato

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Strade e monumenti. Dove l’insidia totalitaria tende un agguato al passato

Strade e monumenti. Dove l’insidia totalitaria tende un agguato al passato

08 Aprile 2012

Alla memoria di Giorgio Fedel

Questa la notizia riportata dall’ Ansa : <Il Comune di Genova, amministrato dal centrosinistra, ha intitolato un viale a un militante della destra sociale, Ugo Venturini, ucciso negli anni Settanta a Genova mentre stava seguendo un comizio dell’Msi. Per il capogruppo Pdl in Senato, Maurizio Gasparri, intitolare una via a Venturini è stato ”un fatto di alto valore morale e simbolico”. La presidente di Giovane Italia, Giorgia Meloni (Pdl), ha parlato di ”passo in avanti” verso ”una memoria nazionale condivisa”>. In realtà, non di strada si tratta ma di un viale dove ora campeggia una targa con la scritta <Viale Ugo Venturini colpito a morte durante un comizio politico. 1937-1970>. Alla cerimonia inaugurativa erano presenti, oltre a Giorgia Meloni, due politici genovesi di lungo corso, già militanti MSI ora esponenti del PDL, Giorgio Bornacin e Gianni Plinio. Dico subito che la decisione presa dalla Giunta rossa mi rende molto, molto perplesso. Allievo — per scelta, non per destino — di Renzo De Felice e ‘revisionista’convinto — ammiro molto Giampaolo Pansa e ho trovato illuminanti le sue ricostruzioni storiche della guerra civile — non sono certo condizionato dalla ‘vulgata antifascista’ né mi fa velo l’antipatia nei confronti di Bornacin e di Plinio che, anzi, mi sembrano, a quel che so di loro, due persone assai perbene.

A non convincermi, invece, è la facilità con la quale si continuano a dedicare le vie delle nostre città a persone che vengono consegnate alla storia non per l’esistenza che hanno vissuto, le opere che hanno lasciato, l’esempio di una condotta più unica che rara ma unicamente (o quasi) per il modo tragico in cui sono morte — combattendo per una ‘causa’ da loro ritenuta giusta o  trovandosi ad assistere a un comizio politico nel momento sbagliato. Per carità, Ugo Venturini — e la sua famiglia — merita certo che lo si ricordi e, per quanto mi riguarda, sono pronto a dare il mio contributo a una raccolta di fondi da destinare a un asilo, a una scuola, a un oratorio che porti il suo nome. La giustizia esigerebbe, per la verità, un grosso impegno nell’individuazione del barbaro che gli tolse il dono della vita ma non ho avvertito, in quanti hanno condiviso il beau geste del Comune, una  indignazione per la latitanza del colpevole pari alla gioia della comune condanna di un delitto rimosso per ragioni politiche.

A Roma, in Via Anicia, davanti al civico  6, sono state murate in terra davanti al portone d’ingresso alcune placchette metalliche con i nomi degli inquilini ebrei dello stabile scomparsi nei lager nazisti: non poteva il ricordo di Ugo Venturini venir onorato allo stesso modo, magari con una targhetta incollata, in bella vista, a un albero del viale, in cui non si parlasse genericamente di ‘violenza politica’ ma di aggressione a un militante della destra almirantiana?  Non chiedo, certo — sarebbe   troppo, me ne rendo conto — rievocare, come  ha fatto magistralmente Giuliano Ferrara sul ‘Foglio’nell’articolo La storia non siamo noi, e la buona lezione del cattivo maestro, gli anni in cui <ai comizi torinesi di Guido Quazza, storico azionista e partigiano> si sentiva <ripetere che la Resistenza era stata tradita, leggenda incubatrice di violenza e terrore che schiacciava sul presente la percezione giovanile del tempo> mentre <l’antifascismo militante> voleva convincere che <uccidere un fascista non è reato>; ma nondimeno resto convinto che senza tale riconoscimento ‘la memoria nazionale condivisa’, che sta tanto a cuore a Giorgia Meloni, rimarrà sempre soffocata dalla retorica del falso e incostante embrassons-nous. Comunque  sono rassegnato a rinviare questo discorso al prossimo secolo, sperando che non sia vero quanto sosteneva il ‘duce’ ovvero che, nel nostro paese, sembra quasi che le Idi di marzo risalgano a qualche settimana fa.

Per tornare invece alla toponomastica, credo che si debba, finalmente, tentare un discorso serio e realistico su certi ‘costumi di casa’, anche a costo di incorrere nel crucifige di destra e di sinistra.

Sia durante il regime fascista sia nei primi anni della Repubblica antifascista antiche denominazioni che ricordavano un vissuto quotidiano denso di palpitante umanità e ricco di saperi tradizionali perduti—via dei guantai, dei falegnami, degli orafi etc.—sono scomparse per far posto a camicie nere o rosse della rivoluzione delle quali spesso neppure gli storici ,‘addetti ai lavori’, ricordavano le ‘imprese. La ragione per la quale quei nomi si trovano a sostituire vie, vicoli, viuzze che, per secoli, avevano conservato i loro nomi, ‘segnaletici’ di civiltà artigianali e mercantili scomparse, stava solo in una generica qualifica (‘combattente’, ‘martire’, ‘eroe’ etc.) e nella data di morte. Ad esempio, un  fucilato del marzo del 1944, che dava il suo nome a una strada non poteva essere che un combattente della ‘barricata giusta’ così come, anni prima, il caduto in Africa Orientale, ‘resuscitato’ dalla toponomastica, in non pochi casi, era una medaglia d’oro o d’argento della guerra fascista.

Non vorrei che in tutto questo ci fosse la nostra immarcescibile sindrome egualitaria: in fondo, si potrebbe pensare, perché intitolare vie unicamente agli eroi della politica, dell’arte, della scienza discriminando il poveraccio che s’è fatto ammazzare per ideali anche da lui fortemente vissuti? Il valligiano che, per aver nascosto armi destinati alla guerriglia partigiana, è stato deportato in un Lager e ivi ha finito i suoi giorni per il  gelo e la fame, non ha lo stesso diritto ad essere ricordato di Duccio Galimberti o, prima ancora, di Giacomo Matteotti? La risposta ‘seria’ è che no, non  ha un tale diritto o, almeno, non ha il diritto di essere ricordato <allo stesso modo>,  perché di Galimberti, di Matteotti, di Lauro de Bosis ce ne sono pochi mentre di poveri cristi sacrificati dai Moloch totalitari ce ne sono tanti e, se li si dovesse ricordare tutti, bisognerebbe ricoprire l’intero paese di una fitta rete di città e di piazze.

Il paradosso, tutto italiano, sta nel fatto che siccome le vittime della violenza politica sono tante, si finisce per  ricordarne, con le intitolazioni delle strade, solo <pochi> e quei pochi vengono scelti dai sindacati, dai partiti, dalle famiglie (quando hanno un certo peso sociale) in virtù di considerazioni di strategia politico-culturale se non in base a ‘motivi clientelari’. Spesso si assiste a un vero e proprio scambio: io ti faccio   dedicare una Piazza a Maria Pocchiola, militante della destra sociale assassinata dai nuovi Gap di Sesto Fiorentino, tu mi fai dedicare i giardini comunali ad Aristide Luvesio, uno dei nostri ucciso dalle Squadre d’Azione Mussolini. Insomma, nel mulino della politica, anche i valori più alti e più nobili, da noi, sono destinati a perdere la loro innocenza: i martiri non sono tutti eguali e se si vuole entrare nell’albo d’oro dei morti ammazzati per motivi ideologici ci vuole la raccomandazione del parlamentare, del sindacalista, del vescovo.(In una località di villeggiatura dell’Appennino ligure,più di mezzo secolo fa, uno stimato professionista, elettore del MSI, fu determinante nel far dedicare la via sulla quale si apriva la sua casa di campagna a uno sventurato giovanotto del luogo finito in un campo di concentramento nazista quasi per caso..Ab uno disce omnes dicevano gli antichi).

Ma allora cosa dobbiamo fare : dimenticare Maria Pocchiola e Aristide Luvesio? Ma neppure per sogno! Gli ebrei di Roma hanno ricordato i loro morti—che poi sono i <nostri>morti giacché erano italiani come noi e per la civiltà liberale, in cui ci riconosciamo, i loro diritti di cittadinanza non avevano nulla a che vedere con la fede religiosa o la presunta appartenenza razziale—con le targhette metalliche murate nel selciato: tanti anni fa, con la libertà riconquistata, si sarebbe dovuto fare lo stesso ,almeno con il sessanta per cento dei ‘martiri’ che leggiamo ora sulle targhe delle nostre strade e che, quando li leggiamo, non possiamo fare a meno di chiederci <ma questi qui chi erano?>.

E’ non poco singolare che Genova tanto generosa da dedicare un viale al povero Ugo Venturini non abbia sentito il bisogno di onorare, in una strada o in una piazza, uno dei più grandi sociologi europei vissuto a cavallo dei due secoli scorsi, Vilfredo Pareto. Il celeberrimo teorico delle élite nacque, è vero, casualmente a Parigi ma da famiglia genovese sicché nessuno lo ha mai detto parigino come invece chiama fiorentino Dante o aretino Petrarca. Ma Pareto è il volto cinico e realista di una città che ha dato i natali alla sua ‘antitesi antropologica’, Giuseppe Mazzini, e, pertanto, poco si presta alla retorica dei 150 anni e al buonismo quirinalesco: meglio, quindi, lasciarlo nel cimitero di Céligny dove dal 1923 riposa con altre celebrità, tra le quali, da diversi anni, l’attore Richard Burton.

Milan Kundera, nello straordinario romanzo, Il libro del riso e dell’oblio, ci ha mostrato, nel suo stile leggiadro e profondo insieme, che il mutar nome alle strade è il sintomo inequivocabile e inquietante della mens totalitaria. <Gli uomini — ha scritto — vogliono essere padroni del futuro solo per poter cambiare il passato> ma affascinati <dall’idea del progresso non intuiscono che ogni passo in avanti è nello stesso tempo un passo verso la fine>.

Nel caso di Ugo Venturini non si è cambiato nome a una strada ma, con le parole di Giorgia Meloni, si è fatto un altro <passo in avanti> per buttare alle ortiche un vecchio e consolidato criterio toponomastico, quello di ricordare o antichi mestieri, antiche famiglie, antiche comunità di lavoro — fossero di arti maggiori o minori — o eroi della ‘polis’che dicono qualcosa ai cuori e alle menti di tutti. Una volta  si innalzavano monumenti o si intitolavano spazi cittadini a Manzoni, a D’Azeglio, a Mazzini, a Garibaldi, a Verdi proprio perché erano ‘conosciuti’ e riveriti . Se quelle icone della nazione  non fossero state onorate  nei luoghi della memoria, i governanti sarebbero incorsi nella critica dell’opinione pubblica—è appena il caso di ricordare che i re d’Italia furono costretti a fare buon viso a cattivo gioco dinanzi alle centinaia di statue erette a Mazzini giacché il Profeta genovese era troppo popolare per impedirne il culto.

E’ tipico, invece, dello ‘stato etico’ (categoria che ricomprende non solo i regimi totalitari, di destra e di sinistra, ma altresì, le pseudodemocrazie ‘giacobine’ che vogliono rendere virtuosi i cittadini) quello di intitolare strade e monumenti non a personaggi noti e cari ma a figure ignote che si vogliono rendere care — in virtù di un progetto di riforma intellettuale e morale della nazione — e far entrare nelle case di tutti a mo’ di santini laici. Nessuno finora sapeva nulla di Maria Pocchiola ma se il governo decide di dare il suo nome a una piazza si finirà tutti per conoscere e  venerare la martire della causa che le costò la vita. Non si celebra qualcuno perché lo si conosce e lo si ama ma lo si celebra perché venga conosciuto e amato: ma in questo disegno non si nasconde una sottile, per quanto sottovalutata e inconsapevole, intenzionalità totalitaria?

Sennonché si può affermare, e con assoluta sicurezza, che i detentori del potere hanno fatto male i loro calcoli. L’uomo della strada legge assai distrattamente, nelle vie e nelle piazze, i nomi di Maria Pocchiola o di Aristide Luvesio e quanto a sapere chi sono e che cosa hanno fatto non gliene potrebbe importare meno. Al  pargolo che chiede <papà chi è Aristide Luvesio?> l’italiano medio risponde con una scrollata di spalle, ingenerando nel figlioletto l’idea che si ha il diritto a ignorare cose che non hanno la minima ricaduta sulla vita di tutti i giorni. Ciò che doveva contribuire all’educazione e all’elevazione spirituale delle masse diventa, così, per una perfida ‘eterogenesi dei fini’, un fattore sicuro di ‘alienazione politica’.

A Casale Monferrato, dove tutti conoscevano Urbano Rattazzi, Monsù Rattazz, al figlio che, vedendone il monumento gli  chiedeva notizia, il papà avrebbe risposto in maniera molto diversa. E forse non senza una qualche intima commozione.