Con la riforma del lavoro finisce l’idillio tra Monti, Confindustria (e gli italiani)

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Con la riforma del lavoro finisce l’idillio tra Monti, Confindustria (e gli italiani)

10 Aprile 2012

Emma Marcegaglia ha polemizzato con  Mario Monti sulla riforma del mercato del lavoro dalle pagine del Financial Times, affermando : “Il testo è pessimo. Non è quello che abbiamo concordato”. Il presidente del Consiglio ribatte seccato dagli schermi del TG1: “Marcegaglia definisce il testo della riforma pessimo, che non è un understatement. Si prenda le responsabilità di quello che ha detto”. Le modifiche all’articolo 18, giudicate non adeguate dalla numero uno di Confindustria, scatenano uno scontro tra governo e associazione nazionale degli industriali.  

Questo scontro è curioso perché da un lato la Confindustria di Emma Marcegaglia ha sterilizzato l’articolo 8 del decreto di agosto che consentiva di effettuare deroghe all’articolo 18 mediante la contrattazione aziendale consentendo quella elasticità che, ora, secondo la medesima Marcegaglia manca nel testo governativo. Dall’altro lato l’impostazione ideologica del governo Monti , consistente nel puntare su una riduzione della varietà dei contratti di lavoro, che emerge soprattutto dalla stretta sulle partite Iva e dall’incremento delle imposte per i contratti a tempo determinato coincide con le tesi degli economisti bocconiani liberal del PD, che sono stati sin qui i più ascoltati dalla Confindustria della medesima Marcegaglia.

L’idea che ci debba essere un contratto di lavoro uguale per tutti, a mio parere, fa a pugni con una società libera, che si basa in realtà sull’ordine spontaneo delle cose, secondo la genuina concezione liberale dell’economia e della politica di Von Hayek, o sui valori della Provvidenza , che fanno parte della natura della persona umana,secondo le concezioni di  Alessandro Manzoni e di Antonio Rosmini. In entrambe queste (convergenti) concezioni c’è il principio del fallibilismo e dell’anti perfettismo, che comporta di non pretendere di conoscere il modello perfetto, tantomeno di sostenere la superiorità del contatti unico rispetto alla varietà dei contratti. Io ho sempre trovato aberrante che ci sia qualcuno che stabilisce che esiste un solo modello, che è l’unico a essere giusto e che bisogna cercare di opporsi a quanti ne vogliono uno diverso anche se non danno fastidio a nessuno. Il contratto, con le sue regole, è qualcosa  che non nasce dal cervello di un individuo superiore, ma dagli uomini organizzati nella società e dallo spirito della libertà che è l’ordine spontaneo. Fortunatamente non è un ordine di lupi, e quindi fa emergere regole cui i singoli nella loro libertà si adeguano. Ma sarebbe un errore fare macchina indietro sulla riforma, anziché migliorarla per la flessibilità in entrata, in particolare con la revisione della norma sulle partite IVA. Ciò fermo restando che facendo rivivere l’articolo 8, la Confindustria e gli altri organismi dei datori di lavoro possono articolare meglio anche la flessibilità in uscita. Infatti fare macchina indietro sarebbe sbagliato, perché  la riforma introduce due novità di principio importanti. La prima è che si stabilisce che come regola generale, non c’è più la riassunzione del lavoratore licenziato ma l’indennità.

Dunque l’articolo 18 torna alla sua stesura originaria di protezione contro le discriminazioni, cioè al diritto a non essere licenziati per motivazioni sindacali, politiche e civili. E’ una rottura simbolica, che mette fine all’assistenzialismo che caratterizza attualmente l’articolo 18. Certo, stona, a mio parere, la terminologia stessa con cui vengono definite le gravi violazioni degli obblighi contrattuali del lavoratore, che comportano l’emergere di una giusta causa per la risoluzione del contratto di lavoro. L’espressione “infrazioni a obblighi disciplinari” è una terminologia di origine  marxista  secondo l’ideologia per cui il rapporto gerarchico nel contratto di lavoro non è un modello organizzativo per il miglior svolgimento della cooperazione ai fini del risultato comune, ma implica un elemento autoritario di sfruttamento, di mercificazione e alienazione. Mentre il concetto corretto è quello del diritto privato, che i contratti con prestazione in cambio di compenso possono venir meno quando una parte viola sistematicamente i suoi obblighi di prestazione. Sarebbe “violazione del rapporto contrattuale”. Il ripetuto assenteista sta violando un obbligo contrattuale in cui ciascuna delle due parti è pari all’altra. Utilizzando San Tommaso d’Aquino, si può parlare di violazione delle regole della giustizia commutativa.

Questa riforma, con la affermazione di principio per cui la regola non è la riassunzione ma l’indennizzo, sia pure con eccezioni non ben definite,  non creerà uno spiraglio immediato per nuovi investimenti, ma un’inversione di tendenza  che nel medio o lungo termine può produrre effetti positivi. Se però il Parlamento non provvede per partite Iva, pensionati e contratti a tempo determinato, con elevazioni progressiva dei contributi, senza contro partita, ci sarà comunque un terremoto sociale e rimanderà nell’economia sommersa persone che fanno un lavoro con liberi contratti di diritto privato. Se non ci pensa il Parlamento alle modifiche, lo farà la protesta sociale che sarà particolarmente aspra in un periodo così difficile. I nuovi indignati saranno quindi le partite Iva, i lavoratori a termine, gli anziani che hanno già una pensione e che devono pagare mostruosi contributi senza avere in cambio nessun beneficio di  pensione.

L’aspetto più aberrante è l’accanimento contro le partite IVA, mentre su sta cercando di estendere l’area di applicazione dell’IVA e si pensa di aumentare l’IVA , che grava sui consumi interni , per ac crescere la competitività con l’estero. Il fatto che una parte del lavoro di cui si servono le imprese sia un lavoro autonomo, con fattura IVA ha appunto l’effetto di accrescere la competitività verso l’estero. Si vogliono liberalizzare i servizi, per svilupparli, ma ora si vogliono penalizzare i servizi alle imprese , sostenendo che sono un “finto lavoro dipendente”. La tesi per cui se un prestatore di servizi ha una “postazione” presso l’impresa o il lavoratore autonomo ch se ne serve, può essere un lavoratore dipendente, in quanto presta i suoi servizi per il 70% a tale soggetto, è priva di senso economico ed è scritta da un presunto esperto che non sa nulla di diritto tributario e in particolare non sa nulla dell’IVA. La parola “postazione” non fa parte della terminologia giuridica od economica del sistema tributario e il requisito della percentuale delle fatture a uno stesso soggetto come requisito per la partita IVA è una stranezza, nella struttura dell’IVA , dal punto di vista della sua regolamentazione europea armonizzata. Il governo attuale è considerato un governo tecnico e il sui premier è-giustamente- considerato un fautore dei principi europei.

Occorre togliere questa mina pericolosa dal disegno di legge sulla riforma del lavoro. Ciò sia per salvaguardare la concordia nazionale, sia per evitare che si apra una spaccatura in seno alla Confindustria in quanto molti ne potrebbero uscire per dare vita a un nuovo movimento che rivendichi le libertà contrattuali che sin qui la  Confindustria , con la sua politica dei contratti nazionali, con la CGIL come partner privilegiato, non ha propugnato. Forse  l’attuale Confindustria voleva un governo che facesse le tradizionali politiche a favore delle grandi imprese, dei monopolisti e degli accordi sindacali, a spese del contribuente, con il sostegno della Cgil. Poi ha scoperto queste aspettative erano infondate per un governo tecnico che però ha anche il voto dei partiti di centrodestra, che comunque si trova di fronte a delle oggettive situazioni europee, e che soprattutto ha un premier che non intende fare la stessa fine di Romano Prodi.

E così la luna di miele tra Confindustria e governo è tramontata. Il governo non ha contrattato con le parti sociali, ma ha elaborato un testo in modo autonomo. Quindi ha stabilito per la prima volta che le parti sociali si consultano, ma poiché non siamo nel diritto corporativo bensì democratico l’ultima parola spetta al governo controllato dal Parlamento. Il governo rappresenta infatti una coalizione di elettori, e i cedimenti sull’attuale riforma del lavoro non sono stati determinati dalle parti sociali bensì dai partiti. La base politica del governo è costituita da una coalizione di cui il Pd è ipocritamente parte. Ha voluto entrarci perché voleva mettere il naso nelle stanze del potere e umiliare Berlusconi, ma ora non è in grado di adempiere ai doveri che abbiamo tutti di compiere dei sacrifici per fare in modo che spread e debito pubblico si riducano.

Questa riforma non creerà uno spiraglio immediato per nuovi investimenti, ma un’inversione di tendenza politica che nel medio o lungo termine può produrre effetti positivi, anche se non certamente nell’arco di pochi anni. Se però il Parlamento non provvede per partite Iva, pensionati e contratti a tempo determinato, ci sarà comunque un terremoto sociale facendo abortire questi tentativi di rimandare nell’economia sommersa persone che fanno un lavoro con liberi contratti di diritto privato. D’altra parte se non si trovasse un accordo in parlamento, per una soluzione positiva rapida, li spread del debito pubblico tornerà a salire minacciosamente. La luna di miele degli italiani con Monti sta terminando, ma la luna di fiele dello spread non sarà debellata finché l’Italia non avrà raggiunto il quasi pareggio del bilancio. Per ora c’è ne ancora almeno una mezza luna.