Quel “deficit di democrazia” che fa dormire sonni tranquilli a Mario Monti
13 Aprile 2012
Il termine “tecnocrazia” è sommamente ambiguo. Da un lato, preso letteralmente, significa potere attribuito a chiunque possieda delle competenze tecniche precise. Quindi non solo ingegneri e scienziati, come la composizione della parola sembra indicare a prima vista, ma anche economisti, giuristi, esperti di scienze sociali etc. Dall’altro le sue origini risalgono agli albori del pensiero occidentale. Elementi tecnocratici si possono già cogliere in Platone, per quanto diverso fosse il contesto storico e culturale in cui si sviluppò la sua visione del mondo, e soprattutto nella “Nuova Atlantide” di Francesco Bacone. In questo caso siamo più vicini alla sensibilità contemporanea, poiché nella sua opera la società diventa – grazie alla nuova scienza – il luogo dove sperimentare le possibilità infinite del dominio umano sulla natura.
Non è mai stato chiaro, tuttavia, di quale potere siano effettivamente detentori i tecnocrati. C’è chi pensa che, proprio sulla base delle loro competenze, essi debbano solo “consigliare” il potere politico. Dei superconsulenti, insomma, destinati a fornire indicazioni ai politici di professione che non hanno il tempo di appropriarsi in modo completo di ogni argomento. Un’altra scuola di pensiero vede invece nella tecnocrazia il metodo più semplice – almeno in teoria – per spogliare il potere delle sue caratteristiche politiche, prefigurando un dominio degli “esperti” svincolato dall’investitura popolare.
La presenza in Italia di un esecutivo tecnico nel senso pieno della parola ha offerto subito lo spunto per rinnovare un dibattito che, come ho detto prima, è antichissimo. Sappiamo tutto – o quasi – sulla nascita del governo Monti. Ciò che non sappiamo, o almeno non conosciamo ancora, è il limite che a tale governo è stato imposto e che gli viene riconosciuto dal Parlamento eletto e dai rappresentanti dei partiti.
Si risponderà che il limite esiste, coincidendo – tranne fatti eccezionali – con la scadenza della legislatura nel 2013. E che il riconoscimento è per l’appunto a termine, come dimostra l’ammorbidimento del governo ogni volta che la resistenza dei partiti (e dei sindacati) si fa più intensa. Ma è proprio così? Il Presidente del consiglio non sembra poi molto impressionato dagli ostacoli che incontra e che probabilmente prevedeva. Né lo turbano più di tanto le critiche alla sua cedevolezza che provengono dall’estero. A un autorevole organo di stampa straniero che lo accusa di non seguire la strada di Margaret Thatcher, ha tranquillamente risposto che ripercorrere i passi della ex “Lady di ferro” britannica non rientra tra i suoi obiettivi.
Da cosa deriva la tranquillità – almeno apparente – di Monti? Coltiva davvero l’intenzione di restare al potere ben al di là del 2013? Poiché mi pare difficile ipotizzare che coltivi sogni di “salazarismo in salsa bocconiana”, come scrisse Piero Ostellino sul Corriere della Sera il mese scorso, la risposta deve essere a mio avviso cercata altrove. E tale altrove è l’estrema debolezza degli attori politici tradizionali in questo particolare momento storico. Inutile strillare per la crescita dell’antipolitica quando essa è dovuta ai soggetti che finora l’hanno gestita. Il cosiddetto “deficit di democrazia” nasce dall’incapacità dei partiti di autorinnovarsi. È questo l’elemento dirompente, che consente al governo tecnico di non farsi prendere dal panico per le critiche che gli piovono addosso, e a Mario Monti di coltivare (forse) l’ambizione di restare al potere per un tempo più lungo di quello inizialmente previsto.
Vorrei far osservare che, nonostante le bordate di parecchi organi d’informazione, i maggiori leaders politici sembrano essere consapevoli di questo dato di fatto. E il più consapevole di tutti, anche se non viene per lo più notato, è proprio Silvio Berlusconi. Non certo contento di essere stato sfiduciato dal Presidente della Repubblica e non dal Parlamento, detentore della sovranità popolare. Eppure prudente, anzi “molto” prudente. Senz’altro anche per necessità, ma non solo per questo. Pur non potendo leggere nella mente di Berlusconi, mi pare plausibile pensare che il suo fiuto politico gli dica di non opporsi in modo netto. Più volte gli abbiamo sentito dire “non ci sono alternative”, senza aggiungere l’ovvio corollario “in questo momento”. Il destino del governo tecnico dipende, oltre che dalla situazione economica, da fattori squisitamente interni come la capacità di rinnovare il rapporto di fiducia tra gli elettori e i loro rappresentanti.