Borat torna al cinema sotto le vesti del Dittatore. E sono subito irriverenza e risate
17 Giugno 2012
Il cinema non ama la dittatura. Sono i dittatori ad amare il cinema. Lenin considerava la cinematografia il treno della rivoluzione bolscevica e una volta affermò: «è l’arte più forte». Mussolini, per non essergli da meno, scrisse di suo pugno: «è l’arma più forte». Il potentissimo dottor Joseph Goebbels, capo della propaganda del Terzo Reich, adorava il cinema e lo comandava con mano ferrea. I maligni dicevano a causa delle attrici. Verità parziale: Goebbels aveva capito l’importanza delle immagini di finzione a fini propagandistici. Insieme ad Hilter, prima di un comizio in una piccola cittadina tedesca, videro “I Nibelunghi” di Fritz Lang. Uscendo dalla proiezione, estasiato, Hitler disse al fido collaboratore: «quando prenderemo il potere sarà lui il nostro regista». Avveratasi la profezia, Goebbels convocò Lang e gli girò la proposta. Ma non se ne fece nulla. I nazisti ripiegarono allora su una donna di fascino pari al talento: Leni Riefenstahl.
Insomma il cinema attira come una calamita i dittatori. Lo vogliono controllare e, se possibile, vogliono finirci dentro, come protagonisti. Hugo Chávez, ad esempio, piccolo Bolívar dei Tropici, autoelettosi naturale successore di Fidel Castro, sarebbe un eccellente attore. Per la sua figura bisognerebbe scomodare il talento magico e reale di Gabriel García Márquez. Potrebbe venirne fuori un racconto per immagini magnifico. Per il contemporaneo “Libertador” delle Americhe il racconto dovrebbe però avere i tratti della farsa. Mancando al nuovo “Líder maximo” la statura e l’imponenza di Castro, sarebbe scontato buttarla immediatamente sul “Líder minimo”. Quindi meglio seguire la strada di Charlie Chaplin con Hitler in “Il grande dittatore”. Una caricatura dell’onnipotenza del potere. Hugo Chávez nei panni di un Borat latino-americano, non alla ricerca di Pamela Anderson, ma della più “politicamente corretta” Naomi Campbell. Mussolini non era poi così entusiasta dell’interpretazione di Annibale Ninchi in “Scipione l’Africano di Carmine Gallone: il povero attore cercava di recitare da antico romano come il moderno dittatore fascista. Hitler invece amava il capo della città del crimine di “M. Il mostro di Düsseldorf” di Lang: ne imitava gesti, mimica facciale, atteggiamenti, spavalderia da capobanda pronto all’azione, con giacca di pelle nera attillata, indossata come una divisa. Stalin aveva un sosia: Mikhail Gelovani. Gli piaceva molto, soprattutto per l’interpretazione nell’eroico “La caduta di Berlino” di Mikhail Chiaureli. Alla fine della proiezione privata nella sua sala cinematografica del Cremlino c’è chi lo vide con il fazzoletto in mano asciugarsi una lacrima. Ma non tutte le fonti concordano.
I dittatori amano il cinema. Nelle immagini della finzione vedono modelli ai quali vorrebbero assomigliare, o protagonisti che vorrebbero essere. Idi Amin Dada, che governò nel sangue (500.000 morti) l’Uganda dal 1971 al 1979, se non fosse deceduto nel 2003 avrebbe potuto vedere il suo perfetto ritratto nel film “L’ultimo Re di Scozia” di Kevin MacDonald. Sullo schermo Amin Dada è interpretato da Forest Whitaker, talmente bravo da meritarsi l’Oscar. Il dittatore era stato pugile, militare, infine generale rivoluzionario. Amava farsi chiamare in varie maniere: Sua Eccellenza, Feldmaresciallo, Signore di Tutte le Bestie della Terra e dei Pesci del Mare e Conquistatore dell’Impero britannico in Generale e dell’Uganda in Particolare. Non aveva paura di sporcarsi le mani, e se c’era da torturare qualche avversario, lo faceva personalmente. Su di lui sono fioccate leggende a non finire: persino che fosse cannibale. E in “L’ultimo Re di Scozia” viene ritratto esattamente per quello che è stato: un ignobile criminale. Fare un film su Idi Amin Dada oggi è semplice. Non si rischia nulla. Ma il georgiano Tenghiz Abuladze rischiò grosso quando nel suo “Pentimento” del 1986 volle mettere a tutti i costi un personaggio: Varlam. Varlam aveva gli occhialini di Berja, la determinazione sanguinaria di Stalin, i baffetti e gli stivali di Hitler e soprattutto era un dittatore. Il muro di Berlino all’epoca era ancora in piedi, e il film fu messo in quarantena. Poi si cominciò a parlarne, venne mostrato in pubblico, in Unione Sovietica e in Europa. La “perestrojka” fu annunciata, prima che arrivasse davvero, grazie al dittatore Varlam, protagonista del film di Abuladze. Ormai i censori, sempre all’erta e potentissimi, non potevano più censurare niente. La dittatura stava finendo e il cinema ne aveva anticipato il crollo rovinoso.
Il cinema di finzione ha un potere straordinario: può ricostruire, se ci riesce, un’accettabile e veritiera misura del tempo passato e di uomini realmente vissuti. Hitler interpretato da Bruno Ganz nel film “La caduta” di Oliver Hirschbiegel ne è una riprova. Sono gli ultimi giorni del Terzo Reich e il Führer si è chiuso nel bunker aspettando la fine. A metà fra il delirio e la disperazione, in un clima da tragedia nibelungica, mentre fuori all’aria aperta il mondo sta prendendo fuoco, capiamo veramente cosa è la dittatura e cosa sono i dittatori: venerano la distruzione dell’uomo.
Poc’anzi abbiamo ricordato Borat. Lo conoscemmo nel 2006, nell’omonimo film interpretato dallo scoppiettante comico Sacha Baron Cohen, che ritroviamo adesso nei panni del dittatore dell’immaginario Wadiya, paese nord-africano. Il titolo del film non lascia dubbi: “Il dittatore”, per la regia di Larry Charles. E Sacha Baron Cohen è un perfetto dittatore. Naturalmente a Wadiya interpreta film in serie, come una star hollywoodiana, altrimenti che dittatore sarebbe! Deve essere il supremo attore, come è il supremo sportivo, militare, amatore. In ogni attività umana immancabilmente primeggia, liberandosi – se serve col sangue, e ciò non gli dispiace – di ogni fastidioso intoppo. L’intelligenza non è prerogativa di Aladeen (questo è il nome del barbuto dittatore). Compensa la manchevolezza con disinvolta crudeltà. È antisemita convinto, e vuole distruggere con le armi Israele. La comunità internazionale non ama Aladeen. Anzi lo detesta. Le Nazioni Unite spingono per fargli lasciare il potere. Così il racconto può spostarsi dall’africana Wadiya alla modernissima America. Qui il dittatore dovrà difendersi pubblicamente davanti ai suoi accusatori. Aladeen piomba a New York, città ferita in maniera irreparabile dal terrorismo. Certo l’impatto è terribile. L’universo gli appare estraneo, non ne capisce il funzionamento. Ma si adatta subito. Basta essere se stesso. Questa è la parte del film in cui Sacha Baron Cohen torna nella veste del giornalista kazako Borat, un alieno dissacratore, un flagellatore di luoghi comuni. Aladeen serve all’attore per ironizzare su tutto e tutti. Difficilmente questa figura di dittatore sanguinario e ridicolo, potrebbe essere interpretata da altri attori. Solo Sacha Baron Cohen, col suo corpo nervoso e scoppiettante, è un perfetto despota (composizione di Saddam, Gheddafi e Bin Laden). Cercare la morale in questa cavalcata della risata è impossibile. Il cattivo gusto domina dalla prima all’ultima immagine. Chi non ama l’irriverenza è meglio che si tenga alla larga da “Il dittatore”.