Se Hong Kong (malgrado il comunismo) ha ancora voglia di democrazia
10 Ottobre 2012
Non ha ricevuto molta attenzione sulla stampa italiana una notizia di politica estera che è invece, ad avviso di chi scrive, piuttosto importante. Riguarda Hong Kong, l’ex colonia britannica restituita alla Cina nel 1997, rispettando gli accordi stipulati nel 1898 tra il Regno Unito e l’allora Impero cinese.
Hong Kong, come ben sa chiunque abbia visitato la città e i suoi dintorni, ha conservato, anche dopo la restituzione alla Cina, delle specificità che la rendono diversa da qualsiasi altro luogo del colosso asiatico. Non si tratta solo delle tipiche cabine telefoniche rosse inglesi agli angoli delle strade o degli autobus a due piani che rammentano immediatamente Londra.
Si respira soprattutto un clima di maggiore libertà e un’apertura alla dimensione internazionale che la rendono tuttora una sorta di “isola” all’interno di un Paese dalle dimensioni continentali.
Finora le autorità cinesi hanno chiuso un occhio sul mantenimento di tali specificità, e con buone ragioni. Hong Kong è infatti un’importantissima piazza finanziaria e bancaria, che consente alla Cina di affacciarsi sul mondo senza troppe pastoie burocratiche. E’ inoltre sede di oltre 100 consolati stranieri, superando in questo caso persino New York.
Attira investitori stranieri in grande quantità e ha un’economia di tipo liberista, piuttosto diversa da quella cinese che è pianificata (anche se in modo meno rigido rispetto ai tempi di Mao).
Inoltre nella ex colonia britannica, che ha conservato la propria bandiera, viene commemorato ogni anno il massacro di Piazza Tienanmen del 1989, mentre in Cina manifestazioni simili sono assolutamente proibite. I mass media mantengono una relativa libertà, ed esiste un Google di Hong Kong che spesso è l’unico canale attraverso cui ricevere notizie in tempo reale su quanto accade nel grande Paese asiatico.
Negli ultimi tempi, tuttavia, Pechino e il Partito Comunista Cinese si sono per così dire “stancati” di questa parziale autonomia avviando una campagna di “rieducazione patriottica” volta, da un lato, a rimarcare la piena appartenenza della città alla Repubblica Popolare Cinese e, dall’altro, a introdurre nelle scuole locali il marxismo-leninismo quale materia educativa di base.
Nonostante le sue piccole dimensioni, la città ha opposto una resistenza passiva che ha avuto un certo successo, tanto che il primo ministro del governo locale, Leung Chun-ying, ha potuto dire che “saranno gli istituti scolastici a decidere come e quando introdurre l’educazione morale e nazionale nell’ambito del corso di studi”. Affermazione assolutamente impronunciabile in qualsiasi altro luogo della Cina.
Ma non è tutto. Nello scorso mese di settembre si sono tenute a Hong Kong le elezioni generali. Il suffragio universale non esiste poiché i cittadini possono votare solo la metà dei loro rappresentanti. Il resto viene “cooptato” dalle corporazioni professionali influenzate dal regime. Eppure il 60% dei voti è stato conquistato dai partiti democratici, i quali saranno comunque in minoranza nel Parlamento locale grazie alle regole imposte dalla Cina.
Non è poco per un piccolo territorio con 7 milioni di abitanti incluso in una nazione totalitaria che conta una popolazione di un miliardo e 300 milioni di cittadini. Hong Kong ha in ogni caso votato in maggioranza per partiti di stampo democratico, e ha difeso con successo la propria libertà in campo educativo.
Un indubbio esempio di coraggio, che speriamo non venga punito con azioni repressive dannose per l’immagine della stessa Cina.