Welfare e società civile secondo Giordano e Tps
30 Luglio 2007
“Il destino dell’economia di mercato, con il suo mirabile meccanismo dell’offerta e della domanda, si decide al di là dell’offerta e della domanda”.
Con questo aforisma l’economista tedesco W. Röpke, generalmente noto come uno dei padri dell’economia sociale di mercato ed artefice delle politiche economiche che segnarono il cosiddetto “miracolo economico” tedesco del secondo dopoguerra, evidenziava una visione del problema politico ed economico non riducibile ai tecnicismi e alle soluzioni di sofisticati modelli matematici. Il problema economico è un problema di relazioni, di interessi reciproci che si confrontano affinché s’incontrino; il problema che solleva l’analisi economica – ed invero la riflessione sull’agire quotidiano – è riconducibile al tentativo di offrire una risposta – la più semplice ed esaustiva possibile – alla domanda che sgorga dall’essenziale inclinazione dell’uomo di natura relazionale. Il che è riscontrabile anche osservando il modo in cui la creazione di forme di vita sociali abbia permesso il raggiungimento di obiettivi che sarebbero risultati impossibili al singolo individuo. L’Incipit del primo libro della Politica di Aristotele ne è un esempio eloquente. L’aforisma di Röpke, ma anche l’Incipit di Aristotele, fanno emergere l’esigenza (introdotta dal Cristianesimo) di una figura d’uomo che si completa e si realizza nella misura in cui si apre al rapporto con l’altro; in tal modo il bene comune ci appare come un valore perseguito in tutti i suoi aspetti sociali e morali e raggiunto dall’azione coordinata dei singoli e delle comunità.
Tali considerazioni di ordine generale ci spingono a giudicare con incredulità, mista a sconcerto, le affermazioni di chi come i leader delle forze della sinistra antagonista – con particolare riferimento a Franco Giordano – si auspicano “che si apra una vera conflittualità sociale, sennò non si otterrà nulla. Solo in questo caso, forse, riusciremo ad aprire uno spiraglio…”. È difficile non cadere nella doppia tentazione di farsi prendere dallo scoramento – con conseguente disincanto e allontanamento dalla partecipazione civile – ovvero dalla passione delle viscere e rispondere per le rime ad affermazioni che ad un lettore moderatamente lucido appaiono allucinate e dettate dal sacro fuoco dell’ideologia barricadiera.
Cercherò di fuggire da entrambe le tentazioni, riflettendo sul ruolo della società civile nell’elaborazione di una sana politica di welfare. L’idea di società civile dalla quale muoviamo non poggia sulla cosiddetta “soluzione hobbesiana” o sulla dialettica hegeliana “servo-padrone”, ossia sul fatto che la vita sociale sia irrimediabilmente condannata alla prevaricazione di una parte più forte sull’altra più debole, sicché dovremmo rassegnarci ad una presenza invasiva dello Stato che tutto regolamenta e disciplina. La nostra posizione è che la società civile non rappresenta lo strumento di legittimazione del potere politico, bensì la linea di confine e l’elemento critico che dall’esterno lo controlla e ne impedisce la tracimazione, fagocitando il pluralismo delle formazioni sociali, ossia, quella rete di corpi intermedi i cui membri scelgono di essere liberi e responsabili; realtà sociali, dunque, che svolgono l’ineludibile funzione di tenere a debita distanza, entro i propri argini, il potere politico. È questo il senso della sussidiarietà orizzontale sul quale invitiamo i politici ad elaborare coerenti politiche di welfare.
Accanto alla ferma convinzioni dei rischi derivanti da una nozione di società civile asservita e succube della tendenza dello Stato ad invadere aree di competenza che non gli competono, rileviamo i rischi derivanti dalla tendenza, altrettanto distruttiva, di una malintesa nozione di società civile di dar vita ad alleanze tra gruppi di potere che sommano la forza dello Stato (leggi partiti) con quella di particolari gruppi di interesse (leggi assicurazioni, banche…) che esercitano la loro influenza, impedendo all’ordine politico di svolgere liberamente e responsabilmente le dovute funzioni di governo.
In tal senso è difficile non essere d’accordo con uno dei massimi studiosi della società civile in Italia, il sociologo Pierpaoli Donati, il quale in un saggio di qualche anno fa affermava senza appello che “la società civile, intesa come pluralismo di formazioni sociali autonome, coesistenti e collaborative ai fini del bene comune, è andata deperendo, soprattutto nella legittimazione, nelle capacit%C3