Ecco perché è necessario riscrivere la costituzione materiale

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Ecco perché è necessario riscrivere la costituzione materiale

14 Novembre 2012

La Costituzione del 1948 è finita. Il contratto sociale e politico tra Stato, governanti e governati, base del patto istituzionale, è stato travolto dagli eventi. Quel patto non regge più perché ormai sono venute meno in modo definitivo, completo e totale le condizioni materiali e formali della sua esistenza. Uno dei motivi della crisi profonda in cui versa il nostro paese risiede proprio nella volontaria incapacità di alcune forze politiche e nella impossibilità, per altre, di prenderne atto. Inadeguatezza certo perché, sono scomparsi i garanti di quel contratto, i grandi partiti ideologici di massa. Ma inadeguatezza, perché il lavoro dipendente, il lavoro della fabbrica fordista, elemento cardine, “valore prescelto come fondamento dello Stato, ha perduto centralità e smalto”.

La fine di quella forma lavoro si porta appresso anche la perdita di senso del progetto politico che su di esso si basava e che si può considerare realizzato: l’integrazione del proletariato nello Stato e la sua trasformazione in ceto medio attraverso la realizzazione dello Stato sociale mentre i protagonisti di quel patto o si sono – e sono stati – dissolti, è il caso dei vecchi partiti, o come i sindacati, figli della rivoluzione industriale, si sono trasformati in qualche cosa d‘altro, strane creature senza identità. Tra le macerie, cani da guardia del passato, il blocco di forze conservatori della società italiana, gabbia d’acciaio senza vita erede del passato, alleanza composita che impedisce qualsiasi trasformazione.

Nel 1940 Costantino Mortati scriveva il celebre saggio La costituzione in senso materiale in cui forgiava una categoria destinata ad avere fortuna anche giornalistica, quella appunto di “costituzione materiale”. In poche e approssimate parole, qualsiasi costituzione formale e scritta non può vivere se contemporaneamente non è espressione di forze materiali della società; ordine sociale che a sua volta deve trovare riconoscimento e legittimazione nella stessa intelaiatura dello Stato. Era necessario che la Costituzione italiana acquisisse, dalla tragedia del Novecento, l’idea del ruolo propulsivo dello Stato per ‘il superamento del principio individualistico, l’affermazione del primato del sociale e la sostituzione di una concezione sostanziale di eguaglianza a quella puramente formale invalsa nelle costituzioni dell’Ottocento’ (Mortati). Questo il nocciolo del patto fondativo della Repubblica sottoscritto da quelli che saranno fin da subito i veri protagonisti della vita pubblica italiana, i grandi partiti di massa dalla DC al PSI al PCI.

L’idea antropologica del “lavoro come fattore di crescita, di autorealizzazione della persona umana” pervade tutta la struttura della Costituzione, e nella coerente dottrina dal sapore fortemente morale del legislatore, i diritti politici avrebbero dovuto essere legati al dovere civile del lavoro. Il lavoro diventa perciò l’elemento centrale, vera architrave su cui poggia tutto l’edificio della carta fondamentale, oggetto privilegiato del dialogo tra tutte le forze politiche, l’elemento culturale che accumuna democristiani e comunisti, destra e sinistra, vere interpreti di quella realtà sociale. Al centro della vita civile non sta il cittadino, non i diritti degli uomini e le donne, ma i diritti dei lavoratori, cittadini in quanto lavoratori.

La nostra Costituzione rispecchia quindi appieno concezione filosofica e concreto lavoro nel secolo passato, realtà di milioni di contadini e operai. Il lavoro della grande industria, la fabbrica sinonimo del Novecento, l’operaio massa come simbolo che negli anni dell’autunno caldo avrebbe portato alla ribalta della cronaca la centralità della classe operaia. Un bravo sociologo di sinistra Aris Accornero userà queste parole per descrivere quegli anni: “era il secolo del lavoro” in cui “tutti si alzavano alla medesima ora, tutti uniformati negli orari giornalieri, settimanali, annui (…) e la vita lavorativa si svolgeva per tutti i giorni feriali della settimana in tutti i mesi lavorativi dell’anno, fino alla pensione”. La fabbrica fordista-taylorista diventerà il modello di un epoca su cui tutta la società era ritagliata.

Certo, c’erano davanti agli occhi del costituente anche l’impresa, il diritto di proprietà, l’imprenditore, ma come qualche cosa che andava comunque regolato e controllato, attività che se lasciate a se sole avrebbero prodotto guasti e danni sociali senza fine. E quindi benvenuto e doveroso era l’intervento dello Stato, necessario a impedire che la troppa libertà dei ‘padroni’ significasse ingiustizie senza fine. Insomma, c’era sì il diritto alla proprietà privata, ma l’impresa rimaneva sullo sfondo. La conseguenza logica fu che al sindacato era demandato fin dall’inizio il compito, diritto-dovere, di adeguare la realtà sociale ed economica a questa idealità dal forte impianto ideologico. I sindacati (art. 3, comma 2 Cost.) diventavano fattori di promozione dell’uguaglianza sostanziale tra i cittadini, strumento di emancipazione socio-economica in grado di rendere effettiva la partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese e di incarnare coerentemente il principio della solidarietà politica, economica e sociale nella strada verso l’uguaglianza sociale cioè verso la coesione sociale, solenne valore costituzionale.

La classe operaia assurgeva al ruolo di portatrice di interessi generali, mentre il sindacato si trasformava in attore istituzionale che realizza e rende vivente la costituzione materiale secondo i dettami di quella scritta. Il patto sociale e politico si realizzerà attraverso trasformazioni profonde. Si inizia con la riforma agraria del 1948 voluta dalla DC di Fanfani: finalmente dopo quasi cento anni dall’Unità si attribuiva alla questione contadina, la questione sociale per eccellenza, quello spazio che gli era stato negato da sempre. Ma tutta la politica economica è all’insegna di quella bandiera: IRI, piano INA casa, la riforma tributaria che porta il nome di Vanoni, e le leggi a favore del Mezzogiorno. Giustizia sociale praticata per realizzare i fini sociali elencati nella Costituzione – pianificazione da realizzarsi attraverso i mezzi e gli strumenti dell’ espropriazione e del trasferimento (art 43), della cooperazione (art. 45), della successione (art.42 ultimo comma) fino alla perequazione tributaria (art.53).

Il secondo atto, tutto politico, risiede nell’entrata del Partito Socialista al governo, nella creazione del primo Centrosinistra, passo politico che sanzionava sul piano politico l’entrata dei lavoratori nello Stato. E fu così che nel 1970 si arrivò allo Statuto dei lavoratori come sbocco conclusivo del ‘moto di opinione pubblica rivolto a far penetrare anche all’interno delle fabbriche il regno della costituzione’ (Mortati).

Non Costituzione “inattuata”; non riforme “attuate come espedienti di politica elettorale, imposti dagli eventi”, ma Costituzione come progetto politico, meta da raggiungere, obiettivo da praticare, processo continuo da affidare agli attori politici più sensibili in grado di interpretare le dinamiche sociali, a quelle forze riformiste che avevano gli strumenti teorici più sopraffini (si pensi a Brodolini e a Giugni) per dare gambe istituzionali alla nuova realtà.

Ecco il paradosso della politica italiana della Prima Repubblica! Il compimento del progetto vedeva trionfanti il riformismo vero, conoscitore profondo dei meccanismi del capitalismo, mentre il Partito Comunista, responsabile principale del compromesso politico del dopoguerra, opponeva una strenua opposizione. Con la legge 300 del 20 maggio 1970 si dava compimento a quell’idea del capitalismo regolato attraverso lo Stato sociale con al centro il lavoratore che adesso diventava, anche sul luogo di lavoro, cittadino a pieno titolo. Qui sta il profondo nesso tra costituzione materiale e formale della Carta del 1948.

Fabbrica, partiti di massa, sindacato. Cemento, acciaio e petrolio. Sviluppo economico illimitato, Stato sociale e Stato nazione. Centralità della politica e del lavoro. Dimensione collettiva del lavoro e dei modelli di vita. Piena occupazione, rimozione e sfruttamento della natura, redistribuzione più equa di una sempre continua e maggiore ricchezza. Questo l’orizzonte su cui si muoveva l’emancipazione della classe lavoratrice. Ecco gli ingredienti del patto del lavoro che fino agli inizi degli anni Settanta ha retto l’Italia coprendo e supplendo anche a magagne ataviche.

Poi dopo tutto cambierà. L’esplosione con il ’68, la crisi petrolifera del 1973 che intaccherà il sogno incosciente di uno sviluppo illimitato, la deriva di un terrorismo figlio di un antagonismo politico totale mai morto nel nostro paese, saranno tutti elementi che segneranno l’inizio di un periodo di crisi interna senza pace, che farà saltare il rapporto diritti-doveri in nome di un egualitarismo irresponsabile, si pensi all’idea del salario come variabile indipendente. Ad una conflittualità esasperata che ruppe la cornice della compatibilità del “chi non lavora non mangia”, si rispose da parte delle forze al governo col meccanismo di acquisizione perversa del consenso attraverso l’inflazione e la crescita della spesa pubblica.

Ci furono certo alcune voci nel deserto negli anni Ottanta: Craxi con il progetto della Grande riforma istituzionale, Cossiga con la necessità di riequilibrare i poteri dello Stato, ed in modo particolare la Magistratura, ormai fuori assetto. Soprattutto a comprendere i cambiamenti profondi delle trasformazioni del mondo del lavoro saranno i giuslavoristi che pagheranno anche con la vita – ricordiamo con ammirazione Massimo D’Antona e Marco Biagi – l’uso dell’intelligenza e della passione civile. Ma resteranno parole inascoltate, bloccate da quel partito della conservazione che, in nome di una Costituzione formale imbalsamata, ben nascondeva, e tuttora copre, i propri interessi privati, senza curarsi che il costo del consenso senza sviluppo fosse pagato da una crescita insostenibile del debito pubblico.

E intanto nel mondo avvenivano le grandi trasformazioni epocali che definiranno un vero e proprio cambiamento di paradigma. Dopo quarantacinque anni si disfaceva l’Impero sovietico fenomeno che si porterà appresso il dispiegamento della globalizzazione ed ecco la fine del terzo mondo, l’avvento dei BRICS, delle nuove potenze regionali. E la vecchia e cara Europa, per duemila anni al centro del mondo, del nostro mondo universale, si è ritrovata a essere un continente tra gli altri, dimenticato anche dall’alleato di sempre, dagli Stati Uniti, unica potenza globale, ormai impero distratto e indebolito, non più da soli in grado di governare il mondo libero in modo propulsivo  – come avevano fatto dopo la Seconda Guerra con quella girandola di istituzioni internazionali economiche politiche e militari -, né di ridisegnare una governance globale che faccia posto ai nuovi paesi emergenti, con il risultato di produrre una caotica frammentazione ulteriore del sistema internazionale.

Il risultato di questo cataclisma è sotto gli occhi di ognuno. In meno di trenta anni si è passati dal secolo del lavoro all’era dei lavori o addirittura per alcuni ad un epoca destinata a diventare, grazie proprio all’azione dell’informatica, quella della fine del lavoro la cui scomparsa o scarsità starebbe emergendo come la questione critica irrisolta della società capitalistica: brasilianizzazione dell’Occidente con “l’irruzione della precarietà, della discontinuità, della flessibilità, dell’informalità all’interno dei bastioni occidentali della società della piena occupazione”, società disgregate senza attori collettivi.

Fenomeni ben noti in tutti i paesi industrializzati, ma che nella nostra Italia hanno assunto una dimensione esplosiva. Mentre le altre nazioni si trovano a fare i conti con la globalizzazione, la crisi finanziaria ed economica, con la trasformazione del lavoro e dello Stato con istituzioni e partiti tradizionali eredi del Novecento che ancora, seppure con fatica, riescono ad incanalare il consenso, gestire e mediare gli interessi sociali in trasformazione, governo della realtà, da noi la situazione è drammaticamente diversa. A causa della riscrittura paradossale della storia a uso perdenti avvenuta dopo il crollo del muro, si sono prodotte delle nuove forze politiche che sono delle spoglie semi morte del nuovo, foglie secche cadute da alberi mai cresciuti, senza una vera e propria forza propositiva, perché senza identità ma con una notevole capacità di interdizione destinata a trasformarsi, con l’andare avanti dei processi di disaggregazione e frammentazione, in entropia. In secondo luogo, da non dimenticare mai il drammatico crollo demografico che affligge il paese e che mina alle basi il patto intergenerazionale e rende, di per sé, insostenibile il nostro welfare.

Anche la nozione di sovranità è cosa passata. Adesso, non solo anonimi processi internazionali rimettono in discussione il significato e il senso dello Stato Nazione, ma anche l’azione della stesa Unione Europea limita di continuo lo spazio d’azione sovrano degli Stati come dimostra anche l’ultima vicenda del Fiscal Compact.

Davanti a compiti così drammatici, se vogliamo che il nostro paese riesca a indicare una direzione ai processi della modernità, è necessario ricostruire un nuovo patto sociale, politico ed istituzionale. In una parola, bisogna che la classe dirigente gestisca il passaggio dalla società del lavoro alla società del sapere senza che il paese si impoverisca e che i costi del cambiamento vengano scaricati sui ceti più deboli, lasciati soli a fronteggiare difficoltà e ingiustizie gettati in una condizione di precarietà, insicurezza, con la conseguente crescita di disagio e conflittualità.

L’unica soluzione razionale risiede nella possibilità che le parti migliori di tutte le forze politiche – quelle che amano l’Italia e il popolo italiano – che si sentono eredi di quel riformismo che riuscì a vedere al di là dei condizionamenti della Guerra fredda e che ridusse a ragione il massimalismo estremista, sappiano e possano riscrivano, prima di tutto sul piano materiale, un nuovo patto sociale ed economico all’altezza dei tempi. Che siano capaci cioè di pensare alle forme lavoro del terzo millennio. Che sappiano concepire politiche economiche responsabili e virtuose non più basate sul debito pubblico o privato. Che sappiano vedere la proprietà privata e l’impresa come attività fondamentali per la realizzazione della persona. Che vogliano sostenere una solidarietà non demandata solo allo Stato e che abbia nella sussidiarietà il suo motore. Che non considerino la parola ‘Stato’ unico sinonimo di ‘pubblico’. Che collochino il cittadino al centro del nesso diritti-doveri. Che, infine, non subiscano passivamente come destino ineluttabile, e automatico, la cessione di sovranità all’Unione Europea senza contropartite.

Solo così sarà possibile rompere la costrizione della gabbia di ferro arrugginito che blocca l’Italia e che vede uniti un vecchio potere formato da spezzoni di magistratura, ideologi prezzolati, nostalgici del comunismo, orfani delle protezioni di Stato, burocrazie statal-sindacaliste, che pur di non perdere i privilegi, sono disposti a perpetrare il loro dominio, spacciato come interesse nazionale, al prezzo di un generale impoverimento del paese. Blocco conservatore che l’azione dei governi Berlusconi ha rallentato, e a cui tolto il velo dell’ipocrisia, ma che non è riuscita né a fermare né tanto meno sconfiggere.

Se questi partiti politici non saranno incapaci di un passo responsabile, di creare un governo di coalizione nazionale che abbia per obiettivo la riscrittura di un nuovo patto materiale, allora, il governo dei tecnici, onesti burocrati senza visione, è sempre meglio, prima di cadere nel baratro, di un circo barnum di comici, estremisti di sinistra, sindacalisti vetusti e lobby economico giornalistiche che ci porterebbe con assoluta irresponsabilità e tranquillamente alla deriva.