Il compromesso storico di Monti non potrà colmare il vuoto del moderatismo italiano
02 Gennaio 2013
Con la "salita" ufficiale in campo del premier dimissionario Mario Monti (anche se molti aspetti di essa devono ancora essere definiti) trova una sua prima compiuta definizione il quadro politico italiano in vista delle prossime elezioni politiche, e si può provare a dare una prima interpretazione dell’evoluzione di esso dopo l’anno del "governo tecnico".
Volendo sintetizzare con una formula, si può dire che alla fine del governo di investitura presidenziale viene ampiamente riconfermata quella impasse del sistema politico bipolare da cui quell’esperienza, sotto la spinta impetuosa della crisi economico-finanziaria mondiale, aveva avuto origine; e che l’ingresso di Monti sulla scena politica non sembra, al momento, in grado di invertire questa tendenza regressiva.
Nel novembre 2011 l’irrituale scelta del Capo dello Stato Napolitano di affidare l’incarico a Monti era stata motivata da un lato dalla constatazione di una irrimediabile disgregazione della maggioranza di centrodestra guidata da Silvio Berlusconi, dall’altro dall’esplicita ammissione dell’allora opposizione di centrosinistra di non essere in grado di affrontare al suo posto l’emergenza in corso. Dopo tredici mesi, in cui il Pdl e il Pd insieme all’Udc hanno sostanzialmente appoggiato tutti i principali provvedimenti dell’esecutivo Monti, era lecito attendersi dai principali protagonisti della politica italiana quantomeno una riflessione approfondita sulle radici del loro fallimento, e una conseguente evoluzione della loro offerta politica in linea con la presa di coscienza che la parentesi "tecnica" non è stata un "incidente", ma un segno di discontinuità nella storia politica italiana da cui non è facile tornare indietro. Insomma, era lecito attendersi dai partiti una ristrutturazione della leadership, della classe dirigente e dei programmi nel tentativo di accreditarsi come possibili, autorevoli forze di governo in una nuova stagione storica caratterizzata da un delicatissimo rapporto tra politica interna, equilibri europei e mondo globalizzato.
L’assestamento avvenuto nel quadro politico a partire dall’autunno pare invece essere andato in senso contrario: verso, cioè, un ritorno al "bipolarismo polarizzato" dell’epoca pre-Monti, con ulteriori elementi di disarticolazione complessiva del sistema.
Il Partito democratico appariva, con l’indizione delle elezioni primarie per la leadership di coalizione, la forza politica più decisamente avviata sulla strada della nuova fase di democrazia competitiva e "governante". In effetti, le prime primarie effettivamente aperte nella storia della sinistra italiana sono state un grande successo mediatico e un’occasione di autentico dibattito interno. Ma il loro risultato, con la netta affermazione di Pierluigi Bersani contro Matteo Renzi, ha segnato il riflusso del Pd sulle posizioni più tradizionalmente iperstataliste e anti-mercato della sinistra italiana, sancito dalla saldatura con la Sel di Nichi Vendola e dall’appoggio decisivo della Cgil di Susanna Camusso. I settori "mobilitabili" di elettorato vicini all’apparato del partito hanno rigettato il candidato più potenzialmente aggregante e trasversale, in grado di regalare al Pd quella "vocazione maggioritaria" a suo tempo cercata da Walter Veltroni con la fondazione del Pd, per consegnarlo a una strategia equilibristica di conciliazione tra le politiche di rigore montiane e impossibili ritorni, in nome della crescita, a politiche "tassa e spendi" paleo-keynesiane; e a un progetto minimalista di alleanza post-elettorale tra "progressisti" e "moderati" (non si capisce su quali basi comuni) corrispondente alla più datata strategia di Massimo D’Alema. In tal modo, si è venuta a creare una tensione di fondo tra la linea della coalizione e una cospicua fascia di elettori di sinistra di impianto liberale, che avevano sposato con fiducia le idee liberaleggianti di Renzi, e che ora sono fatalmente attratte da spinte centrifughe (rispetto a Bersani) e centripete (rispetto cioè a nuove possibili aggregazioni centriste): ciò indipendentemente dagli equilibri che si creeranno tra Renzi e la maggioranza del Pd, ancora per nulla chiari.
Dall’altro lato, il Popolo della libertà e il suo fondatore Berlusconi per molti mesi sono sembrati consapevoli della necessità di sposare una fase nuova della loro storia politica, avviando un processo dialettico interno che – secondo la dichiarazione resa da Berlusconi il 24 ottobre – avrebbe dovuto condurre a elezioni primarie e all’investitura di un nuovo candidato premier. Ma, come sappiamo, quel processo è stato interrotto bruscamente dallo stesso fondatore, che si è imposto nuovamente come candidato e ha riportato il partito su posizioni di netta opposizione alle politiche montiane fino ad allora sostenute, in nome di una strategia di crescita del tutto fuori dall’"ortodossia" europeista ad egemonia tedesca. Questo brusco scarto in senso radicale ha mandato all’aria d’un colpo la prospettiva di una transizione del Pdl da "partito personale" a organizzazione stabile, così come quella di un suo progressivo radicamento nella "famiglia" del popolarismo europeo e della selezione di una sua nuova classe dirigente. In tal modo, Berlusconi è venuto meno all’ultima missione che la storia affidava alla sua anomala, ma cruciale vicenda politica, e ha creato verso l’area centrista-moderata dell’opinine pubblica e del sistema politico un vuoto di rappresentanza pari, se non maggiore di quello determinatosi a sinistra.
Intendiamoci: tanto il riflusso tradizionalista del Pd quanto il ritorno alle origini del "partito personale" berlusconiano su una linea nettamente anti-montiana non sono fenomeni irrazionali, ma rispondono entrambi a una logica di stabilizzazione del rapporto tra quei partiti e l’opinione pubblica di riferimento. Il Pd a guida bersaniana si tiene ancorato alla sua base di consenso sindacal-corporativa e "gauchista" perché cavalcare il disagio sociale verso il risanamento finanziario appare a base e vertici di esso più sicuro che lasciare scoperto quel tradizionale bacino elettorale per avventurarsi in disegni liberali di rappresentanza socialmente trasversale, come intendeva fare Renzi. Specularmente, la svolta drasticamente anti-montiana e neo-personalistica dell’ultimo Berlusconi non può non essere messa in relazione con il fatto che – come risulta indubitabilmente da tutti i sondaggi – la stragrande maggioranza degli elettori del Pdl è su posizioni di netta contrarietà rispetto alle politiche del governo Monti, e questo è il motivo principale del crollo di consensi subìto dal partito berlusconiano nell’ultimo anno: molti elettori di centrodestra, di fronte all’appoggio a Monti, si rifugiano nell’astensione o nell’antipolitica del Movimento 5 Stelle di Grillo. Il Cavaliere si è posto chiaramente come obiettivo primario quello di recuperare quei voti, facendo concorrenza al populismo grillino e "risintonizzandosi" con il "nocciolo duro" della sua base.
In sintesi, tanto il Pd quanto il Pdl, in forme diverse, hanno scelto l’"usato sicuro", il "richiamo della foresta" del vecchio bipolarismo radicalizzato, rifiutando i rischi (ma anche le prospettive inedite) che sarebbero venuti dell’apertura di una nuova fase politica che aprisse la strada alla conquista di consensi nuovi.
Si aggiunga che, nell’assetto politico esistente, le forze intermedie tra i due partiti maggiori non sono strutturalmente in grado di attrarre i consensi liberati dalla radicalizzazione a destra e a sinistra in misura sufficiente da configurarsi come antagonisti potenzialmente vincenti di questi ultimi. Ciò in quanto l’Udc e Futuro e libertà (ma anche i nuovi raggruppamenti che si affacciano, come Italia futura di Montezemolo, non fanno eccezione) si muovono in una logica strutturalmente minoritaria, e più che affermarsi come prima forza aspirano a disarticolare gli altri schieramenti, esercitando un potere di coalizione.
Il quadro così delineato è sufficiente a spiegare le ragioni per cui Monti ha scelto di "varcare il Rubicone" e proporsi – pur con tutte le cautele ed i limiti legati alla sua particolarissima posizione rispetto alla dialettica democratica – come leader di uno schieramento. Il moto centripeto dei due maggiori partiti dell’ultima fase bipolare (oltre che principali membri della sua maggioranza) impone al premier – sotto le convergenti pressioni di soggetti disparati come i Popolari europei, la Germania, l’Ue, l’amministrazione Obama, la Chiesa cattolica – di riempire in qualche modo il "buco nero" venutosi a creare nell’area moderata.
Ma le condizioni ambigue in cui la sua leadership si va formando, e le caratteristiche della classe politica disponibile nell’area che quella leadership dovrebbe supportare, rendono molto ardua l’impresa montiana. Infatti, essa deve fare i conti con una contraddizione di fondo tra il ruolo che il nuovo raggruppamento (o federazione) guidato dall’attuale premier dovrebbe occupare nello scacchiere politico e la collocazione verso la quale lo porta l’inerzia degli equilibri attuali. La dinamica del sistema democratico di alternanza richiederebbe un grande partito di centrodestra liberalconservatore in grado da un lato di controbilanciare la forza oggi più radicata della sinistra a guida Pd, dall’altro di arginare la disgregazione dell’area di destra e la sua riduzione a pulsioni antipolitiche. Ma, per converso, la significativa presenza di posizioni liberali-moderate nell’opinione pubblica di sinistra – attestata dal consenso renziano alle primarie – impone a Bersani di non lasciar trascinare la linea del suo partito su posizioni del tutto antirigoriste, e dunque configura effettivamente tra la sinistra e l’area neo-moderata montiana un possibile terreno di dialogo che al momento non sembra esistere con la destra neo-berlusconiana, in cui le posizioni più "europee" sono state oggettivamente soffocate. Inoltre, per cultura personale un cattolico-liberale di scuola "renana" come Monti guarda naturalmente verso un orizzonte di riformismo "sociale", che in un paese come la Germania è reso possibile anche ad un raggruppamento di centrodestra come la Cdu dalla disponibilità delle parti sociali, e nel nostro paese possono essere da lui ricercate nei settori più responsabili del sindacato e nelle frange riformiste del Pd. E i settori cattolici che costituiscono una parte consistente del nucleo fondante del suo raggruppamento, di scuola eminentemente "sociale" (la Comunità di S. Egidio, le Acli) lo spingono ulteriormente in quella direzione.
Sembra, quindi, inevitabile che l’"area Monti" si orienti a presentarsi non come un’alternativa liberal-moderata alla sinistra bersaniana, ma come un possibile partner di governo di questa che ne riequilibri la linea, sottraendole una parte dei voti moderati e magari tagliando fuori la sinistra di Sel e l’ala più tradizionalmente "socialista" del Pd.
Muovendosi in questo senso, però, l’"area Monti" si preclude fin dall’inizio non solo la possibilità di giocare un ruolo maggioritario, ma anche quella di conquistare consensi significativi nell’area di opinione pubblica rimasta più priva di riferimenti politico-partitici, quella della destra moderata. E favorisce oggettivamente il tentativo berlusconiano di ricompattare quell’area corteggiando le correnti più accentuatamente antipolitiche di essa, ma attraendo anche quelle moderate grazie alla polarizzazione che in campagna elettorale si verrà a creare fatalmente con la sinistra.
Inoltre, il disegno di porsi come forza di "riequilibrio" in un’alleanza di "compromesso storico" con il Pd, magari ancora giustificata dall’emergenza finanziaria e dall’incombere di opposizioni "antisistema" (le destre antieuropee, Grillo), non è affatto detto che sia coronata da successo. Infatti, di fronte alla presenza di "disturbo" della confederazione montiana il precario equilibrio stabilitosi nel Pd dopo le primarie potrebbe rompersi, e l’ala liberal-riformista che fa capo a Renzi potrebbe essere tentata di uscire allo scoperto per forzare una tendenza che oggettivamente ne mortificherebbe la forza, schiacciandola nell’incontro tra Monti e Bersani. Se ciò accadesse, il quadro politico potrebbe subire un nuovo smottamento, con la creazione di nuove polarizzazioni, e il tentativo neo-moderato di Monti potrebbe essere "scavalcato" dal lato più inatteso.