“Sesso, sangue e soldi. Così abbiamo attraversato Prima e Seconda Repubblica”
05 Ottobre 2013
«Vuole sapere la verità? Sono profondamente allarmato dal disordine della lotta politica quotidiana, e dai rischi che sta correndo un paese in cerca di un equilibrio sereno». Giampaolo Pansa racconta da decenni in maniera pungente i sogni, le speranze e i drammi del Belpaese. Richiestagli una valutazione sul momento attuale, il “revisionista” prende di petto soprattutto la seconda Repubblica, nata tra squilli di trombe e ali di folle esultanti; verdetto implacabile il suo: il ventennio trascorso si è rivelato un totale fallimento, e ci ha peraltro consegnato un’Italia peggiore. Al telefono con l’Occidentale, un pizzico di nostalgia per i tempi andati si sovrappone alle amare riflessioni sul presente. Ma la speranza è sempre l’ultima a morire, ed un’esortazione finale concorre ad allontanare quella «gigantesca nuvola nera» che incombe sulle nostre vite: «Non dobbiamo mai smettere di credere nella possibilità che una buona politica migliori finalmente questo paese e le condizioni di chi ci vive».
Pansa, il suo ultimo lavoro è da pochi giorni in libreria. Per quale motivo ha scelto un titolo così forte (“Sangue, sesso, soldi”) per fotografare la natura profonda dell’Italia repubblicana? Dica la verità, ha scritto un nuovo testo revisionista?
«La tiratura di questo libraccio, uscito l’11 settembre, non accenna a fermarsi, e pochi minuti fa dalla Rizzoli mi hanno comunicato che è già in stampa la sesta edizione. Ho cercato di raccontare a modo mio, in maniera molto personale e in parecchie parti anche autobiografica, le vicende repubblicane; il titolo mi aiuta a spiegare meglio ai lettori che cosa c’è dentro queste pagine: una storia italiana che nel suo svolgimento ha sempre visto intrecciarsi queste tre componenti. Nel volume non parlo della guerra civile, di cui ho già scritto in abbondanza, ma è un dato di fatto che abbiamo vissuto e attraversato nel sangue gli anni della prima e della seconda Repubblica: basti pensare al terrorismo, soprattutto quello di sinistra, e alla mafia, in tutte le sue varie facce, che hanno seminato morti in giro per l’Italia. La seconda parola, il sesso, è qualcosa di immortale, che però è diventato un piacere opprimente. Il sesso ormai travalica tutto, e per averne la riprova è sufficiente ad esempio accendere la televisione: i media ci mettono quotidianamente di fronte a storie di letto che un tempo restavano confinate nelle chiacchiere private. Quanto ai soldi, anch’essi sono stati e sono tuttora il motore dell’Italia repubblicana: vogliamo parlare di Tangentopoli, di cosa ha significato la corruzione dei partiti a cominciare da una certa epoca in poi? “Sesso, sangue e soldi” sono le tre parole che un grande editore tedesco di destra, proprietario di giornali popolari, indicava ai suoi direttori come i pilastri indistruttibili per la fortuna di un quotidiano o di un settimanale. A parte l’aneddoto teutonico, mi è sembrato che il titolo potesse fotografare meglio di qualunque altro le caratteristiche fondamentali della vita e della società italiana di questi ultimi decenni».
In queste pagine c’è anche la storia del paese raccontata dal basso…
«In questo senso il libro è revisionista. C’è un vecchio detto del giornalista americano che recita: “Nessun problema senza una storia, nessuna storia senza un personaggio”. Il volume guarda anche alle figure di donne e uomini che l’accademia non considera mai degne di menzione, personaggi sconosciuti protagonisti di storie che ho ascoltato da bambino nei racconti di mia madre, oppure che ho visto e di cui ho riferito nella mia lunga esperienza da giornalista. Ho messo in scena le vite e le storie di tanti italiani qualunque, e probabilmente questo è anche un grande propulsore del libro: la vita delle persone comuni, del cittadino senza potere è il “dramma” più interessante per trarre gli argomenti, le informazioni e le risposte a molte domande che possono servire a far capire come va un paese; quella dei partiti, dei grandi poteri finanziari o militari, dei grandi big culturali, è una storia nota che i giornali raccontano tutti i giorni fino alla noia».
Nella sua storia d’Italia, chi butta giù dalla torre, De Gasperi o Togliatti?
«Sono le due figure simbolo del dopoguerra, quelle che nel libro ci introducono in una lunga storia che arriva ai giorni nostri. Butto giù Palmiro Togliatti, senza alcun dubbio. Alcide De Gasperi ha fondato la democrazia italiana postbellica, ha creato di fatto la Democrazia cristiana, che altrimenti sarebbe rimasto un partito popolare piccolo, senza potere e senza influenza nella vita degli italiani. Togliatti è invece un signore che per troppi anni, come tanti altri comunisti, è andato ad inchinarsi davanti ai baffi di Stalin. Giù dalla torre ci va il “Migliore”, che nel capitolo del libro a lui dedicato ho definito il “Peggiore”».
Craxi o Berlinguer?
«Sono un po’ viziato anche dalle mie frequentazioni, nel senso che pur non essendo stato iscritto ad alcun partito, Craxi l’ho conosciuto quando era studente universitario: aveva un anno più di me ed entrambi appartenevamo all’Unione goliardica italiana. Dopo che egli divenne segretario del Partito socialista, nel 1976, lo incontravo quasi di continuo perché a Roma, per un certo periodo, ero nell’albergo in cui soggiornava anche lui; tornavo da «Repubblica», dove facevo il vicedirettore di Scalfari, e dopo essermi occupato tutto il giorno di politica, entravo nella hall dell’hotel Raphael ed incontravo Bettino, il quale mi aspettava per discutere con me e soprattutto per prendersela con Scalfari. Mi spiegava la sua strategia, che secondo me era giusta, cioè diventare un terzo polo rispetto a quello democristiano e a quello comunista. Poi però questo suo progetto è naufragato come sappiamo, e d’altra parte la storia socialista è finita anche per gli errori che hanno commesso in tanti, a cominciare dallo stesso Craxi. Anche Berlinguer ho incontrato ed intervistato molte volte. Era un uomo che ha avuto poco coraggio perché si è mosso lentamente, è andato troppo adagio, non ha sviluppato fino in fondo le speranze che aveva suscitato, in primis quella di creare una socialdemocrazia in Italia. D’altra parte Pajetta mi aveva messo in guardia, dicendomi: “Ricordati Pansa che non puoi pensare, sperare o convincerci a tenere un passo più svelto perché il passo di un grande partito come il Pci è soltanto quello dell’ultimo dei suoi militanti”. In definitiva, dalla torre li butto entrambi, il leader comunista e quello socialista».
Quella di mercoledì scorso è stata una giornata politica al calor bianco. La Storia perdonerà l’azzardo, ma alcuni organi di informazione ritengono si sia trattato di un 25 luglio per Silvio Berlusconi; non è mancato neppure chi ha fatto riferimento all’8 settembre…
«I paralleli e i ricorsi storiografici sono sempre pericolosi, ma di certo non vorrei che si trattasse, come accaduto per Mussolini, del 27 o del 28 aprile 1945».
Pansa, esiste un problema giustizia in Italia?
«C’è un brutto clima in questo paese, che riguarda tutte le parti politiche ma anche troppe categorie professionali, a cominciare da quella dei giornalisti. La faziosità, l’odio, la delegittimazione reciproca la fanno purtroppo da padrone; e temo che non pochi magistrati (mi riferisco non solo all’accusa, ma anche alla magistratura giudicante) siano malati di faziosità. C’è un profondo problema giustizia, ed è talmente radicata la paura di dover abbandonare certi privilegi che anche una cosa banale come la responsabilità civile dei magistrati viene da essi stessi continuamente boicottata».
Quali parole utilizzerebbe per definire la sinistra italiana?
«Cos’altro c’è da aggiungere rispetto allo spettacolo che ogni giorno offre il PD, un partito che ha perso il suo carattere di fondo, la sua missione politica e le sue caratteristiche. Questo partito avrebbe bisogno a mio avviso di una grande seduta psicanalitica per ritrovare sé stesso; e comunque, gli infiniti litigi di questi mesi sono roba da studiare per capire come si getta via un patrimonio storico e politico. A voler essere buoni, si resta esterrefatti».