L’inverno arabo delle persecuzioni ai cristiani
30 Marzo 2014
Esiste un’associazione senza fine di lucro chiamata “Voice of the Copts”, “Voce dei Copti”, che si occupa di denunciare le violenze contro i cristiani in Egitto. Ha sede sia negli stati Uniti che in Italia e il suo presidente, Ashraf Ramelah, scrive su diversi giornali on-line proprio per dare voce a cristiani egiziani come lui, che nel loro Paese o in altri Stati islamici, vengono discriminati, incarcerati, costretti a fuggire o uccisi. Uno degli ultimi tragici fatti che li riguarda, risale al 24 febbraio scorso: in Libia alcuni lavoratori egiziani cristiani sono stati uccisi dagli integralisti islamici con un colpo di pistola alla testa, appena questi hanno visto le croci tatuate sui loro polsi (nella foto, i cadaveri, ndr). Forse ancora più grave è il fatto che il governo ad interim egiziano non abbia condannato l’accaduto: né il ministro degli Esteri né i leader politici hanno fatto alcun commento. Eppure non è la prima volta che nella Libia post-Gheddafi vengono commesse atrocità nei confronti dei cristiani egiziani: alcune chiese copte sono state bruciate e centinaia di egiziani di fede cristiana sono stati arrestati con la falsa accusa di aver predicato il Vangelo. Anche in questo caso il governo egiziano è stato zitto.
Ciò, osserva Ramelah, non corrisponde alla “nuova direzione” promossa dalle rivolte laiche e liberali egiziane dei tre anni trascorsi, che sembrano aver portato in Egitto un vento di uguaglianza e di libertà mai avvertito prima nel Paese. Invece se i leader egiziani levassero la loro voce contro i crimini perpetrati anche all’estero nei confronti dei loro cittadini cristiani, sarebbe non solo giusto di per sé da parte dei capi una nazione, ma costringerebbe il mondo intero a prestare attenzione a questo dramma di natura settaria, che ancora una volta denota la mancanza di giustizia, di libertà religiosa e della necessaria separazione tra moschea e Stato, in Egitto e negli altri Paesi islamici, come appunto la Libia.
Tuttavia, come abbiamo appena accennato, Ramelah lamenta anche il silenzio del resto del mondo, dell’Occidente, su queste atrocità. Un Occidente che invece (come il nostro scrive in un articolo intitolato “L’Occidente rifiuta la giustizia egiziana”) si è fatto sentire per condannare le sentenze di morte, emesse Lunedì 24 marzo scorso, in meno di 48 ore, dal giudice Saeed Yosef del tribunale di El-Minya, a sud del Cairo, contro 529 esponenti dei Fratelli musulmani. Tutti i 1.229 imputati (facenti parte proprio della Fratellanza e del deposto governo Morsi), saranno giudicati. Finora però solo 147 imputati sono apparsi in tribunale e sono stati arrestati; molti dei condannati (398) sono latitanti e quindi assenti alle udienze, e diciassette persone sono state giudicate non colpevoli. L’ultima parola spetterà al Gran Muftì, un’identità separata dal governo egiziano e la più alta carica religiosa islamica con l’autorità di emettere fatawa, editti religiosi islamici che si basano sull’interpretazione del Corano. Il verdetto finale sarà emesso il 28 aprile. Altri 683 imputati verranno processati lo stesso giorno e tra loro vi sono il leader spirituale della Fratellanza Mohammed Badie, e l’ex presidente del Parlamento egiziano Mohammed El- Katatni.
Tutti questi personaggi sono stati arrestati per violenze e disordini per le strade dopo la rimozione di Morsi lo scorso luglio. Le accuse includono attacchi con pietre, bombe molotov e armi da fuoco alla stazione di polizia Matay ad El-Minya, la morte di un colonnello, il tentato omicidio di un secondo agente di polizia e l’aver dato fuoco al commissariato e ai veicoli militari, dopo aver preso le armi degli stessi poliziotti e invaso il centro di salute pubblica per rapire e mutilare il corpo del colonnello. Insomma, i condannati sono stati riconosciuti colpevoli di gravi crimini per destabilizzare lo Stato. Il ministro degli Esteri egiziano ha dichiarato che il verdetto “è stato emesso da un tribunale indipendente, e dopo un’attenta considerazione della questione”, aggiungendo però che “gli imputati possono impugnare la sentenza dinanzi alla Corte di Cassazione”.
Inoltre ci sono altri membri dei Fratelli musulmani che dovranno rispondere di reati analoghi in altre parti dell’Egitto. Eppure numerose sono state le proteste, nazionali e internazionali, contro la pena di morte per quegli integralisti islamici: persino da parte di alcuni che in Egitto hanno sostenuto la messa al bando della Fratellanza. Voci di dissenso si sono levate da parte dei Fratelli musulmani in Giordania, secondo cui quei fanatici egiziani condannati a morte sono combattenti per Allah e per la “democrazia”. Persino importanti personalità occidentali si sono pronunciate contro il verdetto: come Catherine Ashton, ministro degli Affari Esteri dell’Unione europea, normalmente muta sui cristiani perseguitati in Egitto; la baronessa ha detto che le sentenze di morte non corrispondono agli standard umanitari internazionali, così come Washington è scettica sulle prove e le testimonianze di colpevolezza.
“Dopo aver lavorato per decenni” con bugie, retorica e terrore durante tutta la sua storia, “per rovesciare lo Stato e minato un’ondata di laicismo e di difesa dei diritti umani con l’attività criminale dopo non essere riuscita a governare l’Egitto, un’umiliata Fratellanza musulmana ora affronta la pena più severa consentita dalla legge come reazione al suo tentativo spietato di schiacciare l’anima egiziana e sovvertire il Paese ai suoi capricci radicalizzati”, scrive Ashraf Ramelah. Marie Harff, portavoce del Dipartimento di Stato americano, ha definito “illogica” la giustizia egiziana, ma il presidente di “Voice of the Copts” fa presente che in precedenza la Harff non aveva mai sollevato il problema degli standard internazionali dei diritti umani per contrastare la sofferenza della popolazione non-musulmana in Egitto, costretta a vivere sotto sistematiche violazioni dei diritti umani.