La rottamazione s’è fermata a Roma
04 Giugno 2015
Dopo il secondo grande banco di prova elettorale e a circa un anno e mezzo dalla scalata che lo portò in pochissimi giorni da Palazzo Vecchio a Palazzo Chigi, via Nazareno, possiamo cominciare a trarre qualche valutazione su “chi” è davvero questo Partito Democratico e quanto sia davvero rispondente alle aspettative che non tanto Renzi ma soprattutto i sostenitori del renzismo avevano riposto in esso.
La disfatta bersaniana alle elezioni del 2013 e la caduta rovinosa della “ditta” alle primarie di quello stesso anno avevano fatto intendere che poco della classe dirigente fino a quel momento in sella sarebbe rimasto. E parzialmente è ciò che è accaduto, almeno a livello nazionale.
La minoranza dem ha subito così un notevole ridimensionamento numerico e mediatico, vuoi per chi come Orfini si è organicamente posizionato nella maggioranza vuoi per il riapparire della sindrome della scissione dell’atomo che fatalmente affligge la sinistra da Livorno in poi: Civati e i suoi sono usciti o in procinto di farlo, Fassina, Gotor e D’Attore, come i giapponesi che ancora resistevano sulle isolette del Pacifico a trent’anni dalla fine della guerra, continuano ormai una battaglia massimalista che perde sempre più consenso in Parlamento come nel Paese. Con una maggioranza solida ed una Assemblea Nazionale fedele il Presidente del Consiglio, forte del risultato eclatante delle europee, stava per partorire quel progetto enigmatico ed egemonizzante dal nome “Partito della Nazione”. E poi?
E poi, prepotentemente, sono usciti fuori i territori, la brughiera dem, l’avamposto trascurato e mai veramente in sintonia col nuovo corso democratico. Già nella fase pre-elettorale avevamo compreso quanto differente fosse la linea del segretario Renzi tra il piano nazionale e il piano locale. Dei candidati democratici nessuno, ad eccezione di Ceriscioli, portava con sé l’aurea del renziano doc.
Lella Paita, burlandiana ortodossa ma renziana per necessità, aveva incardinato agli occhi di Renzi la perfetta sintesi tra nuovo e vecchio corso. Un incrocio genetico mal riuscito. Alessandra Moretti poi, abilissima nel triplo salto mortale dalla truppa bersaniana a quella renziana lo è stata meno non tanto nel mantenere il consenso che il Pd aveva ricevuto in Veneto lo scorso anno ma soprattutto nel compito di non diminuire clamorosamente quelle percentuali che, grazie alla sua performance, sono tornate invece ad essere quelle che l’Ulivo aveva durante il secondo governo Prodi. E il resto?
Il resto è stato un successo, dal punto dei vista dei risultati sicuramente ma non sotto il profilo numerico e politico. Né De Luca, né Emiliano, né tantomeno Rossi hanno un profilo che risponda alla trasformazione che Renzi voleva imporre alla classe dirigente del Pd. Se a Roma comanda il nuovo nelle provincie è ancora la vecchia “ditta” e i suoi cespugli a dettare legge. E, per onestà, andrebbe riconosciuto che, a sinistra, nessuno renziano o non renziano, avrebbe potuto far meglio dei vecchi ras. E quindi dal parco rottamazioni Renzi si è fermato al concessionario d’auto usate e affidabili.
Non possiamo quindi stupirci del sostanziale aborto del progetto del “Partito della Nazione”. La rottamazione s’è fermata a Roma. A Eboli, cioè a poco meno di trecento chilometri, vige ancora il vecchio sistema di alleanze demitiane che spostano un equilibrio più precario di quanto potessimo immaginare.
La sfida di Renzi è effettivamente ardua: sui territori questa operazione non solo risulta difficile ma praticamente impossibile: il consenso territoriale non lo si costruisce né con nomi roboanti né con la corsa al giovanilismo ma con una selezione di una classe dirigente che sappia creare consenso e prendere voti. Aver creduto che tutto ciò fosse possibile in meno di 20 mesi rappresenta uno scotto destinato ad alimentare, ancora per un po’ di tempo, le poche munizioni dei giapponesi che stanno ancora sull’isola.