Liberi di non pensarla come Elton John
20 Agosto 2015
“Pure Elton John le suona al sindaco” ha titolato il Fatto quotidiano qualche giorno fa, raccontando i violenti attacchi subiti da Brugnaro, da poco eletto a Venezia, negli ultimi tempi. “Pure Elton John”, perché contro Brugnaro, reo di aver deciso di vagliare le letture somministrate ai nostri figli a scuola, dall’asilo ai licei, si è scagliato letteralmente mezzo mondo: da Le Monde al New York Times, la grande stampa europea e americana ha esposto il sindaco alla pubblica esecrazione, indicandolo come retrogrado e omofobo.
Ovvio che a questo punto arrivassero anche le popstar, che seguono immancabilmente l’onda del politicamente corretto e del consenso facile. E non poteva mancare Elton John, che dopo aver invitato al boicottaggio di Dolce e Gabbana, e aver ottenuto, proprio in questi giorni, le loro scuse, ha constatato come la potenza di fuoco di cui dispone sia efficace. Ma il problema non è più la polemica su matrimonio gay e utero in affitto, su “figli sintetici” o libretti gender like; la domanda che è necessario porsi con serietà è se siamo ancora liberi di esprimere opinioni diverse da quelle di Elton John, senza incorrere in scomuniche, boicottaggi, minacce più o meno velate.
Sull’Occidentale abbiamo pubblicato la testimonianza allarmante di John Waters, che ha guidato la battaglia referendaria contro il matrimonio omosessuale in Irlanda, e ha spiegato come sia stato oggetto di una devastante campagna di odio. Ma non serve più nemmeno elencare quello che succede in altri paesi, negli Usa, in Gran Bretagna, nella stessa Irlanda, e così via; ormai basta citare i casi di casa nostra, da Barilla a Dolce e Gabbana, fino a Brugnaro. Che al sindaco di una città italiana siano dedicate paginate su importanti quotidiani stranieri, perché risponde a preoccupazioni espresse dalle famiglie e dagli elettori, sarebbe soltanto sorprendente se non cominciasse ad essere inquietante.
Si avverte nelle accuse, negli articoli ostili, un retrogusto intimidatorio, una strisciante volontà di isolare e far tacere chi ha un’opinione non conforme alle nuove regole imposte da élite internazionali, da gruppi influenti, dai tribunali. La volontà popolare conta poco, e la politica serve solo ormai a fare da sponda, a certificare un percorso già tracciato, o meglio: un percorso obbligatorio. Quando la politica fa il suo mestiere e prova a rappresentare anche chi la pensa diversamente, a dare voce a chi ritiene che la famiglia sia quella disegnata dai padri costituzionali, a chi vorrebbe limitare l’intervento dello stato nella sfera più intima dei bambini (quella che riguarda l’affettività, l’identità sessuale) si scomoda addirittura il New York Times.
Eppure Brugnaro non ha fatto altro che mantenere una promessa fatta in campagna elettorale, e cioè evitare che nei nidi (sì, nei nidi) e nelle materne del comune di Venezia tutti i bambini ascoltassero storie di famiglie fatte anche da due papà o due mamme. Brugnaro ha vinto la competizione elettorale a sindaco con un programma che prevedeva anche la revisione di alcuni progetti della precedente amministrazione: la delegata ad hoc del sindaco Orsoni, Camilla Seibezzi aveva sostituito nei documenti per le iscrizioni alle scuole comunali i termini padre e madre con “genitore” perché “più generale e inclusivo”, secondo lei; come a dire che mamma e papà sono termini discriminatori, inutilizzabili perché un po’ razzisti. La Seibezzi aveva aperto l’accesso alle case popolari alle coppie non eterosessuali, e promosso un progetto per letture antidiscriminatorie, con l’obiettivo di superare “gli stereotipi di genere”, definizione che può comprendere qualunque tipo di intervento, da quelli condivisi e fondati a quelli che tantissime famiglie trovano inaccettabili, perché tendono ad annullare la differenza sessuale.
Queste iniziative non sembrano aver incontrato un gran successo, se poi i veneziani, al momento del voto, hanno premiato Brugnaro, che aveva promesso di cancellarle. Forse sarebbe il caso di farsi qualche domanda sul reale e diffuso gradimento delle scelte della Seibezzi, oltre quello manifestato da associazioni come AGEDO (Associazioni di genitori, parenti e amici di persone LGBT). Così come sarebbe il caso di chiedersi se effettivamente i genitori gradiscano un’ingerenza tanto pesante nell’educazione scolastica dei propri figli, a partire, come abbiamo ricordato, dai nidi. La Seibezzi, che ha protestato e ha chiesto al sindaco “un confronto pubblico su tali temi”, forse non ha colto che il momento del confronto pubblico c’è stato, eccome: si chiamano elezioni comunali, e la sua amministrazione le ha perse, probabilmente anche grazie a lei.
Ma su questi temi la democrazia sembra funzionare solo a senso unico: bene i sindaci gay-friendly, votati perché rappresentativi di un pensiero che le istituzioni internazionali promuovono a piene mani, mentre chi vince proponendo visioni più ancorate alla tradizione dei padri costituenti (non tutti cattolici, come è noto), va screditato, e se ne cerca di distruggere l’immagine pubblica, incuranti del fatto che rivesta quella carica perché scelto democraticamente dai cittadini.
Ormai appare evidente come ci sia un tentativo neanche troppo dissimulato di mettere a tacere voci dissenzienti rispetto al mainstream dominante, facendo sì che certe verità – per esempio che i bambini nascono da un genitore maschio, il padre, e un genitore femmina, la madre – possano solo essere sussurrate alle orecchie degli amici nel chiuso delle nostre abitazioni, in modo rigorosamente privato, e non più espresse nella pubblica piazza. Insomma: è la libertà di espressione, la libertà di manifestare, di dibattere, di prendere una posizione pubblica ad essere a rischio. Non è cosa che riguardi solo i cattolici, e nemmeno soltanto chi rifiuta le teorie gender o i matrimoni gay: riguarda la democrazia, e chi la vuole salvaguardare.