Cosa vuol dire “far spazio” alla Boldrini in Liberi e Uguali?
21 Dicembre 2017
Che cosa si vuol dire quando si afferma che c’è bisogno di far spazio alla Boldrini in Liberi e Uguali? “Lo spazio per la Boldrini, insomma, sul versante Liberi e Uguali è già stato creato” scrive Mauro Bazzucchi su Huffington post dell’11 dicembre. Cresciuto nella Prima repubblica quando la politica era in larga misura influenzata dalla Guerra fredda, il peso di Mosca si esercitava con ben altra consistenza dello scrivere tre scemenze su Facebook, e le agenzie di intelligence americane si davano da fare anche all’estero e non erano solo impegnate a regolare i conti con la politica nazionale, sono, come molti tra quelli che si sono formati così, portato a qualche forma (leggera, credo) di paranoia, peraltro alimentata anche dalla Seconda repubblica dove, questa volta da giornalista, ho assistito a una politica dominata dalle inchieste giudiziarie, un’altra bella scuola naturale di programmatica, inevitabile, paranoia istituzionale anche quando registrata da magistrati professionalmente valenti (il che non è sempre stato il caso). Premetto queste considerazioni per scusarmi se esagero in dietrologia quando mi sembra di cogliere un elemento di sberleffo alla presidente della Camera (la cui personalità, come una volta tanto ha giustamente osservato Matteo Renzi, oscura persino quella di un’altra presidente come Irene Pivetti) nella frase di Bazzucchi. Che cosa significa sottolineare che c’è bisogno di creare “spazio” in Liberi e Uguali per la Boldrini? Si vuol giocare con i cognomi sottolineando un incontro tra un Grasso e una grassa a cui è necessario far “spazio”? Dopo gli insulti di quella povera sperduta di Asia Argento alla “lardosa Giorgia Meloni”, dopo che anche il “Pulitzer Prize-winning columnist David Horsey apologized for an ‘insensitive’ description of Sarah Huckabee Sanders” il premio Pulitzer Horsey si è dovuto scusare per un’ “insentive description”, una screanzata descrizione della Sanders (insomma ha dato della cicciona alla portavoce di Trump) pubblicata sulla sua column nel Los Angeles Times (così riferisce su Usa Today del 3 novembre William Cummings), adesso con “il facciamo tanto spazio alla Bolrdini” si sdoganano, nel feroce scontro tra ex “fratellini politici ”, certi metodi anche a sinistra?
Non voglio spocchiosi, Serra si tira da parte. “Deve essere, ovviamente, non una casta di spocchiosi”. Michele Serra sulla Repubblica del 2 dicembre mette giù alcuni suoi pensierini. Leggendoli cogliamo una di quelle buone notizie che tanto piacciono a Umberto Cairo e che l’editore sempre consiglia ai suoi del Corriere. Serra non vuole come classe dirigente “una casta di spocchiosi”. Insomma, si tira fuori. Peraltro ogni tanto riusciamo a trovare qualche motivo per non essere così pessimisti come si tende a essere, sul nostro orgoglio nazionale (Italien unter alles, come ama ripetere spesso Aldo Cazzullo). A proposito dell’effetto Serra a cui prima accennavamo, non è vero che noi italiani abbiamo il monopolio dello snobismo provincialistico e spocchioso. Leggete che cosa riporta sul Financial Times del 15 dicembre Courtney Weaver: “’To listen to her pronounce ‘priorities’ is akin to hearing the air seep out of a flat tire, and she leaves half of the consonants on the curb,’ the New York Times columnist Frank Bruni moaned recently” . Il columnist del New York Times Bruni si è recentemente lamentato perché Sarah Huckabee Sanders (portavoce di Donald Trump) pronuncia la parola ‘priorities’ come una gomma bucata che si sgonfia e lascia metà delle consonanti per strada.
Brexit, quel che viene dopo Dunquerque. “Britain has made a series of spectacular concessions in order to conclude this phase of the talks and move on to trade discussions”: persino Gideon Rachman da sempre assai critico verso la Brexit, sia pure nel modo intelligente di certi ambienti della City londinese e non con la sguaiataggine quasi americanizzata che ha raggiunto il settimanale un tempo elegante dell’Economist, spiega sul Financial Times del 13 dicembre come Theresa May abbia fatto concessioni dolorose a Bruxelles per prepararsi alla battaglia decisiva sulle regole del commercio e della finanza transazionale. Speriamo che prevalga la saggezza di Paolo Gentiloni che una volta tanto sembra essersi scosso dal suo torpore dopo che sulla sede dell’Ema, la Libia e il ministro delle finanze dell’eurozona l’hanno trattato come un emarginato, e ha detto: “’Con la Gran Bretagna avremo un ‘atteggiamento’ di amicizia, difendendo gli interessi nazionali ma sapendo che la strada del ‘no deal’ di non trovare un accordo sarebbe un ripiego negativo e pericoloso”. Speriamo perché, come fa intendere il pur Brexit-scettico Rachman, gli inglesi (nonostante tutte le difficoltà che la May – come, paragonando una pulcina a un’aquila, ebbe Winston Churchill – ha con le sue maggioranze) alla fine sono ossi duri da masticare. Possono subire una Dunquerque, ma poi vincono le battaglie per il cielo d’Inghilterra, a El Alamein e ti sbarcano in Normandia.
Perché è meglio un presidente colto anche se non poco (con ottimi argomenti) infangato, di uno più integro ma dedito solo alla demagogia e alla politichetta. “President Barack Obama urged voters this week to stay engaged in democracy, warning that complacency was responsible for the rise of Nazi Germany”. Miranda Green sulla Cnn l’8 dicembre ha riportato queste parole di Barack Obama: gli elettori devono essere vigili perché al nazismo si è arrivati attraverso il voto. “Tribalism based on race, religion, sexual identity and place of birth has replaced inclusive nationalism”. Bill Clinton ha scritto sul New York Times del 5 dicembre che un tribalismo basato sulla razza, sulla religione, sull’identità sessuale e sul luogo di nascita ha sostituito un nazionalismo inclusivo. Obama ha una bella famiglia, non pare roso dalla voglia di accumulare compulsivamente ricchezza al contrario di Bill Clinton che è uno sporcaccione e molestatore più o meno seriale a lungo protetto dall’immunità che gli hanno consentito i media liberal, ed è un avido accumulatore di denaro, anche quello non propriamente specchiato che è arrivato alla sua fondazione da nazioni straniere mentre sua moglie era segretario di Stato. Eppure il primo si rivela nella frase riportata quel parolaio che è sempre stato, un tipo alla Walter Veltroni per capirsi, per il quale la politica è chiacchiera più il mettere insieme voti su base etnica senza un pensiero unificante, trattando gli Stati Uniti come un quartiere di Chicago. Mentre il secondo articola il pensiero che si può non condividere ma non è una scemenza del tipo “ci stiamo avviando alla Germania nazista”. Il punto precisato dall’ex promessa dell’Arkansas è che gli Stati Uniti sono formati da tante tribù e il problema di chi li guida è unire queste tribù in un nazionalismo inclusivo. Poi, naturalmente – anche perché nella fase post Weinstein è ormai quasi passato da re a reietto dell’establishment democratico – Bill semplifica il suo pensiero, dando tra l’altro tutta la colpa ai social network, influenzati dagli spioni russi. Individua delle “categorie” ma al contrario di quando corse per la presidenza del 1992 quando le “categorie” le dominava e non le subiva, ora si arrende al mainstream liberal per cui ci sono solo i suprematisti bianchi (e non anche i furbacchioni di Chicago che hanno incrinato l’alto grado di politica integrata tra le razze degli anni precedenti che ha consentito tra l’altro il meraviglioso risultato civile di eleggere un presidente nero), ci sono solo i bigotti che insistono su religione e identità sessuale (mentre quando era alla Casa Bianca Bill sapeva cogliere il problema dell’ispirazione laicamente religiosa della politica e sapeva ragionare di morale naturale da intrecciare al massimo di tolleranza per le libertà di comportamento individuale), parla di luogo di nascita anche per contestare certe stupidaggini trumpiste sul cosiddetto birtherism legato a Obama, ma trascura come la questione del luogo di nascita (al netto delle stupidaggini) è consustanziale con la definizione di cittadinanza cioè l’unica base possibile per costruire l’imperfetta democrazia oggi a nostra disposizione.
Insomma talvolta un politico sostanzialmente corrotto può capire meglio la realtà di uno sufficientemente integro moralmente, ma capace solo di una retorica demagogica. In ogni caso, va osservato, come alla fine tutti e due i presidenti abbiano così logorato la politica americana che per trovare una via di uscita una parte della società statunitense si è affidata al trumpismo, una tendenza di cui anche chi ne coglie l’elemento utilmente necessario, non può non riscontrare elementi gravemente distorsivi della discussione pubblica. D’altra parte l’essenza della democrazia liberale degli Stati Uniti consiste nei suoi periodici rivolgimenti. Alla fine siamo convinti che anche quelli attuali riusciranno ad aprire una strada positiva per il futuro.