
Lo dicono fatti e cifre: l'”eccezione” trumpiana funziona

22 Gennaio 2018
A un anno esatto dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, ci si aspetterebbe dai commentatori, dagli esperti di politica americana, e in generale da giornali e media un bilancio della sua presidenza fondato su dati, cifre, confronti, che guardi a tutti gli elementi fondamentali della politica e dell’economia statunitense.
Trump è certo un personaggio politico decisamente anomalo rispetto agli schemi del dibattito politico americano, e si è imposto anche proprio per questa sua anomalia: ha sempre puntato su un’estrema personalizzazione della dialettica politica e suscitato una forte polarizzazione di opinione. Ancor più alla luce di questo aspetto, lo scadere del primo anno di presidenza dovrebbe essere l’occasione per valutare con freddezza se, come e quanto l'”eccezione” trumpiana ha funzionato all’interno del consolidato sistema democratico del paese, e nel teatro della politica globale, piuttosto che per continuare a concentrarsi sulle controversie generate dall’effervescenza temperamentale del presidente.
Per la verità su alcuni tra i maggiori giornali statunitensi – inclusi quelli che non hanno mai appoggiato Trump, come il “New York Times” o il “Washington Post” – sono comparse diverse analisi equilibrate sui risultati effettivi della nuova Amministrazione. Le campagne di denigrazione sommaria del presidente non si sono spente, ma cominciano ad aprirsi spazi di discussione meno pregiudiziale.
Lo stesso, purtroppo, non si può dire dei commentatori europei, e tanto meno di quelli italiani, ancora fermi – salvo pochissime eccezioni – alla caricatura, alla macchietta, alla pura delegittimazione e demonizzazione di un presidente presentato in toni che spaziano dall’impresentabile e rozzo “gaffeur” al pazzo pericoloso.
Dopo mesi in cui si sono concentrati soprattutto sul cosiddetto Russiagate (inchiesta che per come è stata presentata avrebbe dovuto condurre difilato all’impeachment del presidente, e che invece sempre più si rivela una inconsistente montatura politica), sulle denigrazioni personali rivolte a Trump dal suo ex collaboratore Craig Bannon (poi clamorosamente smentite), sulle presunte definizioni ingiuriose (smentite poi da testimoni) pronunciate da Trump all’indirizzo dei paesi di provenienza degli immigrati illegali, sull’ennesimo scoop basato su vecchie amanti e prostitute e simili, in occasione del primo anniversario della presidenza gran parte dei nostri commentatori e media non hanno trovato nessun argomento più importante di cui parlare che il cosiddetto “shutdown“: cioè il blocco delle attività attività della pubblica amministrazione statunitense in seguito alla rottura delle trattative tra maggioranza e opposizione parlamentare sul bilancio pubblico. L’intento, secondo uno schema comunicativo ormai consolidato, è quello di presentare lo “shutdown” come un fallimento o una sconfitta di Trump. Intento patetico, dal momento che analoghi blocchi, dovuti all’ostruzionismo del partito di opposizione quando il governo non può godere dell’appoggio di una maggioranza qualificata in entrambe le Camere, si sono verificati spesso negli ultimi decenni anche quando erano in carica presidenti del partito democratico, come Clinton e, recentemente, Obama, che non per questo hanno smesso di governare.
In alternativa, al massimo gli svogliati “americanisti” aderenti all’ortodossia antitrumpista nostrana si sono limitati a “celebrare” la ricorrenza ricordando che il tasso di popolarità di Trump dopo un anno di carica è del 38%, il più basso della storia recente. Omettendo di ricordare che il capo di Stato francese Emmanuel Macron, da molti di loro celebrato come una sorta di nuovo demiurgo e leader dell’Europa, a meno di un anno dal trionfale successo ottenuto alle elezioni presidenziali e in quelle parlamentari, gode di un tasso di popolarità del 40%, appena di due punti superiore. E comunque quanto può essere sorprendente il fatto che il giudizio sull’esordio di un leader che si è sempre presentato come decisamente divisivo, sfidando di petto il blocco di potere di Obama e Clinton, quello delle grandi corporations di Silicon Valley, il grande mainstream mediatico legato ad entrambi e lo stesso establishment del partito repubblicano, sia, appunto, divisivo?
Eppure, come dicevamo più sopra, volendo ci sarebbero tanti elementi di cui parlare per articolare un giudizio ragionato: fatti, cifre, tendenze, scenari possibili.
Si dovrebbe ricordare innanzitutto il fatto che in questo anno l’economia statunitense ha vissuto una crescita univoca e costante. Che il PIL aumenta del 2,6%, la disoccupazione scende sotto la soglia già bassissima del 4% (in pratica siamo alla piena occupazione, e in molti settori non si trova personale sufficiente), e anche i salari, dopo quasi un decennio di recessione, accennano a crescere. Inoltre Wall Street è cresciuta nel 2017 del 30%, il rialzo annuale più alto dall’epoca di Franklin Delano Roosevelt. Alcuni critici americani di Trump replicano che tale crescita si pone sulla scia di una tendenza risalente già alla presidenza Obama, alimentata soprattutto dalla politica fortemente espansiva adottata dalla Federal Reserve fin dai primi tempi della grande crisi, e pagata peraltro dagli Stati Uniti con un forte aumento del debito pubblico, quasi raddoppiato dal 2007 in poi. In questa osservazione c’è sicuramente del vero. Va però anche sottolineato come l’Amministrazione Trump si sia inserita nel trend ascendente non soltanto assecondandolo, ma favorendolo con provvedimenti di forte effetto.
In particolare, essa ha intrapreso una consistente opera di deregulation, come non se ne vedeva dall’epoca di Reagan. E soprattutto Trump ha promosso una delle più incisive riduzioni fiscali della storia statunitense, con la legge che taglia le imposte di imprese e persone dal 35% al 21%. E, servendosi delle clausole contenute nella stessa legge, ha prodotto una decisa pressione sulle grandi aziende che avevano delocalizzato produzione e versamenti fiscali perché facessero rientrare nel territorio Usa impianti e capitali: una pressione che ha prodotto nei giorni scorsi uno dei frutti più clamorosi con il versamento forfettario di 38 miliardi di dollari da parte della Apple, accompagnato dalla promessa di investire in patria con la creazione di almeno 20.000 nuovi posti di lavoro. Molte altre grandi corporations sembrano inclinate ad accettare accordi di “rilocalizzazione” e patteggiamento fiscale, il che non potrà non riflettersi positivamente non soltanto sul Pil e sull’occupazione, ma anche sul debito e sul rapporto tra quest’ultimo e il Pil stesso.
E la politica estera? La propaganda ostile al nuovo presidente lo accusava, nei primi mesi del suo mandato, di irresponsabile disimpegno nei settori strategici e di liaison sospetta con la Russia di Putin. Quando, poi, Trump ha cominciato a dispiegare le sue mosse sullo scacchiere internazionale, le accuse si sono bruscamente rovesciate, e su Trump sono piovute le consuete critiche allarmistiche rivolte ai presidenti troppo interventisti e conflittuali: lo si è accusato di pregiudicare la pace, di fomentare guerre, di essere un apprendista stregone, e simili.
Cosa dicono invece i fatti? I fatti dicono innanzitutto che in Medio Oriente in pochi mesi Trump ha posto fine al lungo periodo della rovinosa ed ondivaga politca estera condotta da Barack Obama: politica il cui frutto è stato un enorme aumento del caos e del’instabilità in tutta la regione, e il rafforzamento degli attori più ostili e pericolosi per gli interessi occidentali, dall’integralismo dell’Isis a quello dell’Iran.
Attraverso una rapida riconversione delle strategie militari, sotto il comando di Trump gli Stati Uniti e i loro alleati hanno finalmente inflitto allo Stato islamico dei colpi (si spera) decisivi. Attraverso questa svolta, e sconfessando l’accordo sul nucleare con l’Iran che era stato firmato da Obama e favorito dalla Clinton, il nuovo presidente ha messo in un angolo il regime teocratico sciita, che stava investendo le enormi risorse liberate dalla revoca delle sanzioni nel militare e nel finanziamento di gruppi terroristici, espandendo sempre più la propria influenza nell’area. E i moti di protesta scoppiati nelle scorse settimane nel paese non sono probabilmente estranei a questa rinnovata pressione americana.
La decisione di spostare a Gerusalemme l’ambasciata Usa in Israele, poi, a suo tempo è stata stigmatizzata da media e politici di mezzo mondo come una pericolosa provocazione (nonostante fosse l’attuazione di una decisione votata dal Congresso americano più di 20 anni fa). Si è detto che essa avrebbe scatenato reazioni sanguinose da parte dell’intero mondo arabo e l’assemblea generale dell’Onu ha votato una risoluzione di decisa condanna, con l’appoggio di quasi tutti i paesi europei. Ma la realtà è stata molto diversa. Dopo qualche giorno di dimostrazioni nei territori palestinesi, si è dovuto constatare che la decisione aveva rafforzato non soltanto Israele, caposaldo degli interessi e dei princìpi delle democrazie occidentali in Medio Oriente, ma anche i paesi arabi sunniti sostenitori di una linea di moderazione e stabilizzazione nella regione, dai quali è stata nella sostanza avallata.
Infine, la risposta decisa di Trump alle provocazioni nucleari del dittatore nordcoreano Kim Jong-Un è stata additata dai soliti critici pregiudiziali come pericolosa e possibile causa di un’incontrollabile escalation bellica. Viceversa, essa sembra finora aver non soltanto contenuto le smanie megalomaniache di Kim, ma addirittura aver favorito indirettamente un primo, cauto dialogo tra le due Coree dopo un lungo periodo di incomunicabilità .
Per quanto riguarda il tema della sicurezza interna contro il terrorismo e dell’immigrazione, Trump ha suscitato proteste scandalizzate quando ha emanato il celebre (impropriamente detto) “Muslim Ban“, che limitava le possibilità di entrare sul suolo statunitense da alcuni paesi mediorientali a rischio di infiltrazione integralista. Ma la Corte Suprema alla fine ha riconosciuto la legittimità della legge, e di una politica più rigorosa di controllo dei confini, quale il presidente ha sempre sostenuto nel suo programma elettorale.
Sul tema della difesa della famiglia e della natalità Trump ha poi messo a segno una serie di provvedimenti di forte significato, attraverso i quali ha ridefinito fortemente la sua figura politica – con sorpresa di molti, inclusi molti elettori repubblicani – in senso più marcatamente pro-life: dalla nomina del cattolico conservatore Neil Gorsuch a giudice della Corte Suprema al blocco dei fondi statunitensi a programmi Onu implicanti diffusione dell’aborto, al sostegno all’obiezione di coscienza religiosa contro la legislazione “gender-friendly”, alla modifica dell'”Obamacare” per eliminare l’obbligatorietà di assicurazioni sanitarie implicanti aborto e contraccezione. Fino alla storica partecipazione e al discorso pronunciato (per la prima volta da parte di un presidente in carica) alla Marcia per la Vita tenutasi a Washington proprio qualche giorno fa.
In conclusione, il bilancio politico di questo primo “anno trumpiano” può essere positivo per qualcuno, negativo per qualcun altro, composto di luci ed ombre per altri ancora. Ma quelli che abbiamo sommariamente elencato sono gli elementi effettivi su cui esso si dovrebbe fondare.
Invece, soprattutto da questo lato dell’Oceano Atlantico, il giudizio sulla presidenza Trump tende ancora troppo spesso a ridursi, tristemente, ad una grottesca caricatura dell’Uomo Nero.