
L’enciclica “Veritatis splendor” oggetto della disputa nella Chiesa?

23 Marzo 2018
di Aldo Vitale
Ha fatto discutere nei giorni scorsi l’evento delle dimissioni di Monsignor Viganò in seguito alla parziale pubblicazione della lettera redatta da Benedetto XVI in cui il Pontefice regnante, ma non governante dichiarava la propria soddisfazione in favore dell’iniziativa di studi sulla teologia del Pontefice regnante e governante, cioè Francesco, così da smentire chi – tanto tra i catto-progressisti quanto tra i catto-conservatori – ha sempre sottolineato il rigore dottrinale del primo Papa a fronte di una sua presunta mancanza di “spirito pastorale” e ha sempre evidenziato lo spirito pastorale del secondo Papa pur rilevando le presunte “falle” teologiche, dimostrando così che l’uno aspetto non è e non può essere scisso dall’altro.
La vicenda per quanto senza dubbio sia contraddistinta da toni fortemente folkloristici e dal tenore mediaticamente accattivante, non è tuttavia la principale, come si evince leggendo con attenzione proprio la missiva di Papa Ratzinger integralmente pubblicata da AgenSir al seguente indirizzo (https://www.agensir.it/quotidiano/2018/3/17/lettera-di-benedetto-xvi-il-testo-integrale/).
L’aspetto più interessante, e senza dubbio più complicato, che per la gran parte è stato immotivatamente trascurato, riguarda, infatti, un passaggio della lettera di BXVI in cui il Papa tedesco ha dichiarato che pur apprezzando l’iniziativa di questo nuovo filone di studi sulla teologia di Papa Francesco, non avrebbe potuto e voluto leggere alcuni di essi in quanto loro autore – tra gli altri – è il teologo Peter Hünermann il quale, come scrive letteralmente Benedetto XVI, «durante il mio pontificato si è messo in luce per aver capeggiato iniziative anti-papali. Egli partecipò in misura rilevante al rilascio della ‘Kölner Erklärung’, che, in relazione all’enciclica ‘“Veritatis splendor”’, attaccò in modo virulento l’autorità magisteriale del Papa specialmente su questioni di teologia morale. Anche la ‘Europäische Theolongesellschaft’, che egli fondò, inizialmente da lui fu pensata come un’organizzazione in opposizione al magistero papale».
Insomma, dinnanzi all’insegnamento della Chiesa condensato nell’enciclica “Veritatis splendor” (di cui il prossimo agosto ricorreranno i 25 anni dalla data di pubblicazione a firma di San Giovanni Paolo II), si staglia uno schieramento più o meno nutrito, ma ben agguerrito di teologi che da un quarto di secolo la avversano in modo più o meno diretto.
E qui si dovrebbe rinvenire il problema che non può essere che scaturigine di alcuni inevitabili interrogativi: può davvero un teologo opporsi a ciò che la Chiesa insegna e tramanda da sempre, anche nel campo morale? Può un documento dottrinale come “Veritatis splendor” contenere errori pur inscrivendosi all’interno del ruolo di insegnamento della fede e della morale cristiana che per natura compete al Romano Pontefice assistito dal carisma dell’infallibilità come lo stesso Concilio Vaticano II si è premurato di ribadire nei paragrafi n. 18 e n. 25 della Lumen Gentium? Può davvero la dottrina teologica e morale di un personaggio solennemente proclamato santo dopo opportuno processo canonico, come ritualmente accaduto per San Giovanni Paolo II, essere errata come sostengono i suoi detrattori che pur si situano, almeno per ora, ben al di qua di quella linea della santità che li identifica, oltre il merito e il metodo delle loro argomentazioni, tra tutti gli altri fallibili peccatori di cui sovrabbonda il mondo?
Eppure, proprio rifacendosi al dato letterale del Vangelo non sembra poter essere così come sostengono gli oppositori della “Veritatis splendor”, poiché è stato lo stesso Cristo ad instituire l’apostolato e il primato infallibile di Pietro («Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa», Mt., 16,18), è stato lo stesso Cristo a sancire la sua “rappresentanza” tramite l’opera della Chiesa e dei suoi Pontefici («Chi ascolta voi, ascolta me», Lc., 10,16), e, infine, è stato lo stesso Cristo a prescrivere ai propri Apostoli e ai di questi successori l’onere di insegnare la retta dottrina fugando gli errori («Andate e ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte le cose che vi ho comandato», Mt., 28, 19-20).
Ebbene, alla luce del dato evangelico, pur così sommariamente rappresentato, non si può fare a meno di notare che, ben lungi dal riuscire a perseguire lo scopo prefissatosi, proprio i detrattori della “Veritatis splendor” ne suggellano la legittimità, confermando la validità sostanziale del suo insegnamento, poiché l’intera enciclica è stata per l’appunto pensata come risposta inevitabile a tutti quegli ingannevoli “errori di dissociazione” che profondamente affliggono quella parte degli studi teologici la quale, specialmente nell’ultimo mezzo secolo, ha confuso la libertà della ricerca e dell’approfondimento teologico con la predilezione ostinata per una forma di convulso esotismo eterodosso (come per esempio ben insegna lo specioso caso della nascita e della diffusione della cosiddetta “teologia della liberazione” che, a cavallo degli anni ’70 del XX secolo, ha inteso fondare un mostruoso ircocervo sincretistico tra la dottrina teologico-morale cattolica e quella politico-ideologica marxista).
E’ proprio in ragione di ciò che la “Veritatis splendor” dichiara e denuncia che «oggi sembra necessario riflettere sull’insieme dell’insegnamento morale della Chiesa, con lo scopo preciso di richiamare alcune verità fondamentali della dottrina cattolica che nell’attuale contesto rischiano di essere deformate o negate. Si è determinata, infatti, una nuova situazione entro la stessa comunità cristiana, che ha conosciuto il diffondersi di molteplici dubbi ed obiezioni, di ordine umano e psicologico, sociale e culturale, religioso ed anche propriamente teologico, in merito agli insegnamenti morali della Chiesa. Non si tratta più di contestazioni parziali e occasionali, ma di una messa in discussione globale e sistematica del patrimonio morale, basata su determinate concezioni antropologiche ed etiche. Alla loro radice sta l’influsso più o meno nascosto di correnti di pensiero che finiscono per sradicare la libertà umana dal suo essenziale e costitutivo rapporto con la verità» (n. 4).
Alla luce di tutto ciò, dunque, occorre fornire una lettura corretta dei fatti: con la sua lettera Papa Benedetto XVI, infatti, non solo non ha inteso sconfessare Papa Francesco, ma non ha inteso neanche negare l’utilità degli studi sulla teologia di Papa Francesco, pur evidenziando al contempo, (tramite la messa in guardia del popolo dei fedeli e degli studiosi come dovrebbe fare ogni buon pastore nei confronti dei pericoli in cui potrebbero incorrere le proprie pecore), che alcuni di questi studi sono palesemente contaminati da posizioni in qualche modo “ereticali” essendo dunque fuorvianti e possibilmente non realmente coincidenti con le posizioni teologiche dello stesso Papa Francesco a cui si riferiscono.
In conclusione, quindi, occorre prestare profonda attenzione al significato reale delle parole e delle azioni e delle intenzioni dei Pontefici, che devono essere comprese senza filtri ideologici o qualunquistici, ricordando non soltanto le parole e le ammonizioni del salmista il quale invitava a non essere «come il cavallo e come il mulo privi d’intelligenza» (Sal., 31,9), ma anche e soprattutto le parole dello stesso Cristo il quale aveva già chiaramente avvisato i propri seguaci presenti e futuri:«Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt., 10,16).