M5S-Pd, Renzi sa bene qual è il destino degli “Alfano”

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M5S-Pd, Renzi sa bene qual è il destino degli “Alfano”

30 Aprile 2018

Renzi sa bene qual è il destino degli Alfano. Di Maio dovrà cedere a Renzi ministri importantissimi”. Così il sito del Fatto del 28 aprile registra una frase di Massimo Cacciari. Massimo Franco sul Corriere della Sera sempre del 28 raccoglie dichiarazioni di esponenti grillini che dicono che vogliono trattare Renzi “all’Angelino Alfano”. Fra i due punti di vista non c’è contraddizione. L’Ncd aveva, all’inizio della sua avventura con Enrico Letta, gli Interni, l’Agricoltura, i Lavori pubblici, le Riforme e la Sanità. Poi man mano questi ministeri (prima Nunzia De Girolamo poi Maurizio Lupi) sono stati sfrondati da magistrati, che nella prossima stagione è probabile che stiano più con Luigi Di Maio che con Matteo Renzi. Il senatore di Scandicci è un volpino giovane, però sa bene che finirebbe ugualmente in pellicceria se seguisse il modello Alfano. Non è probabile che dopo tutti i pasticci combinati il genietto di Rignano abbia un futuro, ma alfanizzandosi non lo ha sicuramente.

La via delle confusioni parallele tra ex Pci (ex Pd?) e M5S, probabilmente ha un futuro. Innanzi tutto locale. Se c’è una cosa che possiamo rivendicare con forza è la massima coerenza”. Così scrive Luigi Di Maio sul Corriere della Sera del 29 aprile. La barriera del ridicolo non è un problema del candidato premier dei grillini che passando da No euro a Sì euro, da Sì reddito di cittadinanza a No reddito di cittadinanza, da No a Tav a Sì Tav e così via, rivendica innanzi tutto la propria coerenza. Ma d’altra parte conta su una base parlamentare pronta a trasformarsi da quasi bakuniniani in sicuramente casiniani, così il senatore M5S Matteo Mantero intervistato da Annalisa Cuzzocrea sulla Repubblica sempre del 29: “Sarebbe da irresponsabili andare al voto”. E troverà una sponda nel Pd? Il partito del potere locale, da Nicola Zingaretti a Beppe Sala, spinge per un accordo che è la sola chance per vincere le prossime elezioni sul territorio. Così dice Sergio Chiamparino, intervistato da Giovanna Casadio nella Repubblica del 29: “se parliamo di sostegno indiretto, cosa più probabile, il discorso cambia”. Insomma si avanza la proposta di un governo delle confusioni parallele, meglio precisato da Andrea Orlando che dice, intervistato da Monica Guerzoni  sul Corriere ancora del 29, come questo esecutivo dovrebbe essere realizzato “senza chiedere né fare abiure”, al sodo si propone un governo di solo “se” e di solo “ma”. Questa linea è improbabile che passi in Parlamento dopo il niet di Renzi: “Non siamo disponibili a diventare soci di minoranza della Casaleggio”. Così il sito Rai news del 29 aprile riporta le dichiarazioni renziane alla trasmissione di Fabio Fazio. Ma probabilmente la via delle confusioni parallele potrebbe avere un futuro “locale”. Vincenzo Bisbiglia spiega sul Fatto del 29 aprile come questo orientamento si stia affermando: “Con le vittorie di Amedeo Ciaccheri e Giovanni Caudo, Roma mette in crisi il modello di partito creato da Matteo Renzi e, soprattutto, sembra chiedere un importante passo indietro di Matteo Orfini. Le primarie del centrosinistra nei municipi romani al voto in estate (Montesacro e Garbatella) sanciscono il fallimento in città della classe dirigente voluta dai fedelissimi dell’ex premier, bocciando i candidati espressione dei “caminetti” Dem. Al contrario, avanza il cosiddetto ‘campo progressista’, struttura fluida che nella Capitale si sta creando all’ombra del cosiddetto ‘modello Lazio’ di Nicola Zingaretti”.

I gloriosi orizzonti del governo Di Maio preparati da Nino Di Matteo. La ricetta di Di Matteo che tra «una giustizia minimalista che blocca gli eccessi» e «una vera per attuare la Costituzione» sceglie la seconda, e propone «la riforma copernicana della prescrizione, che si blocchi con la richiesta del rinvio a giudizio». Di Matteo lancia la formula: «Né manettari, né giustizialisti, la misura sta nel rapporto tra i reati e i danni per la collettività». Di qui la certezza della pena («Né amnistie, né indulti, né leggi svuota carceri, la condanna va scontata»); punizioni più alte per corruzione e voto di scambio; operazioni sotto copertura e misure di prevenzione per la corruzione; intercettazioni per una platea più ampia di reati”. Liana Milella sulla Repubblica descrive il programma che Nino Di Matteo (il vero ideologo della banda a 5stelle, altro che Giacinto della Cananea) ha studiato per Luigi Di Maio. Basta scherzare a fare i manettari e i giustizialisti, quelle sono robe alla Piercamillo Davigo,  quello che si vuole preparare è un regime tipo quello di Recep Tayyip Erdogan, organicamente autoritario. Angelo Panebianco spiega con la sua solita intelligenza, il peso di questa prospettiva sul Corriere della Sera del 30 aprile: “La centralità di quelle tecnostrutture mi fa pensare, contro l’opinione di molti, che il Movimento 5 Stelle (il cui successo è soprattutto, a mio giudizio, un sottoprodotto, un «effetto collaterale», dell’operato di quelle tecnostrutture) non sia affatto l’equivalente di una bolla speculativa”. Lo spostamento nel post ’92 del potere dalle istituzioni democratiche agli apparati dello Stato (a partire dalla magistratura) non è facilmente recuperabile perché l’obiettivo di impedire una politica autorevole che  modifichi lo stato di cose esistenti  è facilmente percorribile come dimostrano posizioni anche di una persona di qualità come Michele Salvati sempre sul Corriere del 30 che non auspica “una prova elettorale inconcludente”. La democrazia politica italiana si può salvare solo poggiando sul rapporto con i cittadini (come si comprende a contraris dalle esperienze vissute dall’Italia  dopo il 2011) che si esprime in un solo modo votando: “e se non si hanno risultati netti “rivotando”, in questo caso gli eventuali necessari compromessi hanno una ben diversa legittimità.

Quelli che non credean che il Donald löico fosse. China has found itself in an unaccustomed place: watching from the sidelines”. Un’acuta osservatrice della realtà dell’oriente asiatico come Janet Perlez, responsabile della redazione di Pechino, ha raccontato sul New York Times del 22 aprile come la Cina sia stata spiazzata dalle mosse di Washington con Pyongyang, e con questa analisi ha anticipato la straordinaria evoluzione di questi giorni con gli incontri tra Kim Jong-un e Moon Jae-i. Quei poveretti degli antitrumpisti con la bava alla bocca non hanno avuto la stessa lucidità della giornalista di un quotidiano pur in prima linea contro Trump. Ancora sulla Repubblica del 27 aprile un dissidente nordcoreano Cho Jun-hun intervistato da Filippo Santelli accusava il presidente americano perché in Corea del Nord “Mancava poco, poteva succedere qualcosa di simile alle rivolte arabe”. Federico Rampini, un altro che aveva criticato per inconcludenza la Casa Bianca, deve ricorrere sulla Repubblica del 28 aprile a un altro scenario per criticare il Trump:“Una ‘grande Corea neutrale’ potrebbe scivolare nell’orbita politica di Pechino, oltre che nella sua sfera economica”. Il contrario dell’analisi della Perlez che appare assai più informata e acuta nelle sue valutazioni. Ma è questa la nuova frontiera un po’ di tutti gli antitrumpiani: anche di uno scenarista di vaglia come Ian Bremmer che però dice anche ad Antonello Guerra sulla Repubblica del 28 che se “Potessi votare per il Nobel per la Pace oggi di certo darei la mia preferenza a Trump”. In realtà il team della Casa Bianca anche grazie a James Mattis e arricchito oggi da Mike Pompeo al Dipartimento di Stato e John Bolton come consigliere alla Sicurezza nazionale, ha una logica strategica che dalla Corea del Nord all’Iran, al contenimento della Cina e alla rieducazione della Germania, sta rimediando molte degli sbandamenti determinati dal trio Barack Obama-Hillary Clinton-John Kerry.