
Quell’aborto (quasi) costretto e i rischi della mentalità eugenetica

26 Giugno 2019
di Aldo Vitale
«È meglio per tutti se, invece di attendere che la prole degenerata sia giustiziata per i delitti commessi o muoia di fame a causa della propria imbecillità, la società può fermare coloro che sono manifestamente inadatti a continuare la specie»: così il Presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti, Oliver Wendell Holmes, nel noto caso Buck v. Bell del 1925, ebbe a dichiarare relativamente alla legittimità di una legge che imponeva la sterilizzazione forzata per i soggetti disabili mentali.
Il più eminente giurista liberale statunitense dell’inizio del XX secolo, ben prima di un decennio dalla comparsa di ogni immaginabile deriva ideologica nazionalsocialista sul vecchio continente, esponeva con estrema chiarezza e lucidità la mentalità eugenetica, cioè quella per cui occorre limitare il più possibile, per il bene sociale e per il bene degli stessi individui, che soggetti inadatti alla continuazione della specie possano liberamente riprodursi.
Del resto, come è noto, l’eugenetica, nata nel XIX secolo dall’intreccio delle prime rilevanti scoperte biologiche con l’ideologia positivista, è di gran lunga più risalente del nazionalsocialismo che si è “soltanto” limitato a renderla quanto mai efficiente e ad applicarla rigorosamente su una scala mai prima così vasta ed estesa.
Sorprende, tuttavia, che dopo le tragiche ed antiumane esperienze del XX secolo, che senza dubbio costituiscono il più vivido esempio storico di ciò che può accadere allorquando si applica una (bio)politica di stampo eugenetico, ancora oggi una non indifferente parte della cultura occidentale in genere ed europea in particolare cova segretamente aspirazioni di carattere sostanzialmente eugenetico.
Tra i molteplici esempi, è possibile fare riferimento al caso di recente occorso in Gran Bretagna in cui un giudice di primo grado ha ordinato un aborto forzato ai danni di una donna disabile mentale adducendo il suo miglior interesse nell’interrompere la gravidanza piuttosto che nel continuarla.
La decisione è stata poi fortunatamente ribaltata nel grado di appello, ma l’accaduto merita comunque qualche breve riflessione.
In primo luogo: la circostanza storica per cui si è transitati dall’eugenetica di Stato del XX secolo all’eugenetica privata del XXI secolo – come comprovano le molteplici risorse tecnologiche messe a disposizione di chi, per esempio, intende scegliere l’embrione più adatto o selezionare il sesso o le caratteristiche fisiche del proprio figlio – non soltanto non consente di valutare, né eticamente né giuridicamente, in senso positivo le prospettive eugenetiche, poiché in ogni caso sono lesi e vilipesi i diritti fondamentali del soggetto eugeneticamente selezionato, ma per di più si rende evidente come non sia così scontata la fine dell’eugenetica di Stato, posto che un tribunale può addirittura ordinare un aborto forzato contro o perfino senza il consenso della donna che conduce la gravidanza.
I confini tra una eugenetica di Stato, presuntivamente confinata alle pagine di storia, ed una eugenetica privata, espressione dell’accresciuta importanza del principio di autodeterminazione (procreativa) individuale, dunque, non sono così netti come alcuni sostengono.
In secondo luogo: ciò che emerge è proprio il paradosso per cui in un’epoca come quella attuale che quasi tutte le proprie risorse intellettuali ha investito e investe quotidianamente per la giustificazione costante del principio di autodeterminazione – specialmente in riferimento all’assolutezza dell’autonomia delle scelte procreative che le donne rivendicano – si possa ope judicis ordinare un aborto forzato solo perché la gestante è una paziente mentalmente disabile.
Anche il confine tra una autodeterminazione assoluta, come quella che da più parti si rivendica oggi in tema di diritti procreativi o di fine vita, e una energica negazione della libertà in se stessa considerata, dunque, non è così definito come i più, frettolosamente, ritengono.
In terzo luogo: non si può fare a meno di notare come i pericoli della diffusione di una mentalità eugenetica, mai del tutto realmente sopita nonostante le angosciose pagine della storia novecentesca, sono quanto mai attuali e sempre in grado di rappresentare una grave aggressione ai diritti fondamentali degli esseri umani, specialmente dei più deboli.
E tanto più si palesa l’antiumanità e l’antigiuridicità delle pratiche eugenetiche quanto più si abusa del diritto per riaffermarne, in modo esplicito o implicito, la legittimità, come accaduto per mano di una sentenza nel suddetto caso inglese.
Occorre chiedersi, quindi, se la condivisione, perfino a livello istituzionale e per mano di alcuni tribunali, di certe pratiche che traducono una prospettiva sostanzialmente eugenetica rappresenti un evidente indicatore della grave recessione dei valori fondamentali della democrazia e dello Stato di diritto che si sta silenziosamente e inesorabilmente diffondendo, e, inoltre, se si possa accettare, con generica indifferenza, una tale recessione proprio nel cuore della civiltà occidentale odierna.
In conclusione, probabilmente, aveva ragione Gilbert Keith Chesterton secondo il quale «l’atteggiamento della mentalità moderna è tale da permetterle di procedere non solo verso una legislazione eugenica, ma verso ogni immaginabile e inimmaginabile eccesso dell’eugenetica».
Si è disposti ad accettare passivamente tali eccessi?