Coronavirus in Italia: il naufragio delle istituzioni e una società incapace di disciplina
07 Marzo 2020
I dati italiani sui contagi da Coronavirus indicano da un lato ormai un vero e proprio naufragio dello Stato, dall’altro una debolezza di fondo della società italiana di fronte ad emergenze rilevanti per la salute e la sicurezza pubblica.
Se si confrontano le cifre dell’epidemia nel nostro paese con quelle relative al resto del mondo, saltano agli occhi alcuni dati su cui occorre urgentemente riflettere. 1. Siamo la nazione in cui il tasso di mortalità rispetto ai casi è più alto. 2. Siamo la nazione con la più alta percentuale di casi gravi, obbligati al ricovero in terapia intensiva, rispetto al totale dei contagiati. 3. Siamo il secondo paese con la più alta incidenza di casi sulla popolazione totale, dopo la Corea del Sud e prima della Cina. Con la differenza che in Corea le vittime sono meno di un quarto, e i casi critici quasi 10 volte meno (percentuale ancor più bassa se confrontata col numero assoluto dei casi). Non ha senso – ed anzi produce un effetto grottesco – continuare a compiacersi di una presunta risposta esemplare delle nostre istituzioni alla sfida (come ha fatto ancora oggi il capo della Protezione civile Borrelli citando gli elogi ricevuti dall’OMS), se i numeri indicano impietosamente una “specialità” così negativa dell’Italia rispetto al mondo nell’impatto con il fenomeno. Queste cifre dipingono il quadro di un vero e proprio “buco nero”; un collasso apparentemente inspiegabile per un paese dell’Occidente industrializzato.
Per quanto riguarda i punti 1 e 2 – a parte le già discusse questioni riguardanti presenza e funzionamento dei reparti ospedalieri di terapia intensiva – in Corea, a quanto possiamo ricavare dalle fonti disponibili, l’incidenza della mortalità e dei casi critici è molto bassa perché è stato effettuato un numero molto alto di tamponi, quindi di diagnosi precoci, e molti casi asintomatici sono stati seguiti attentamente per prevenire complicazioni. Non si può dire, inoltre, che il numero molto maggiore di morti in Italia sia dovuto al maggiore tasso di anzianità della popolazione, in quanto in Corea del Sud l’età media è solo di due anni più bassa (42 contro 44). Perché in Italia chi sta gestendo la lotta al virus si oppone ad effettuare uno screening diagnostico di massa il più ampio possibile? Per motivi economici? In tal caso mi pare evidente sia necessario concentrare molte più risorse in questo senso. Oppure ancora per un mal celato pregiudizio ideologico, secondo cui l’importante è evitare “l’allarmismo” (con i brillantissimi risultati che si sono visti)?
Sul punto 3, è chiaro che le misure di isolamento finora attuate nelle regioni maggiormente interessate dal contagio funzionano male. Pur facendo la tara del tempo di incubazione, evidentemente gli abitanti di quelle regioni, a parte le “zone rosse”, rispettano ancora troppo poco le limitazioni di movimento e di contatti essenziali per contenere il contagio. Per non parlare degli abitanti di molte altre regioni, e di molti che viaggiano per motivi di lavoro o di famiglia, i quali sembrano tenere ancora molto poco in conto la gravità della situazione, col risultato di moltiplicare i focolai sul territorio nazionale. Le misure adottate su scala nazionale sono state tardive, e a quanto pare sono ancora troppo blande. Le chiusure di scuole, università, stadi, spettacoli andrebbero prolungate, e integrate da un ricorso il più possibile generalizzato al lavoro a distanza in ogni campo in cui sia possibile. Occorre ancora intervenire drasticamente per scoraggiare con efficacia spostamenti e assembramenti inutili, e per controllare (anche con tamponi e/o quarantene obbligatorie) chi non può evitare di spostarsi. Detto questo, da questi complessivi fallimenti ed insufficienze emerge anche un problema complessivo di mentalità diffusa, di costume rispetto ad altre parti del mondo. A parte le considerazioni sul caso cinese, non paragonabile al nostro per la natura illiberale e dittatoriale delle misure restrittive poste in atto da quel regime (ma, va rimarcato, su numeri giganteschi: si parla di 700 milioni di persone praticamente isolate), sembra indubbio che la società italiana abbia oggi molto da imparare dalla disciplina sociale, dal senso civico e dal rigore istituzionale prevalenti nei paesi dell’Estremo Oriente asiatico. Essa mostra ancora, rispetto all’epidemia, un atteggiamento troppo superficiale e leggero: in parte per la sua radicata propensione all’individualismo e familismo anarcoide, in parte perché incoraggiata fino a poco tempo fa da messaggi irresponsabili e controproducenti lanciati dal governo e da altre istituzioni. Questa superficialità e irresponsabilità, questa mancanza di consapevolezza della disciplina, del sacrificio, delle rinunce che a presente emergenza sanitaria richiede, sono i fattori che zavorrano maggiormente il paese nella guerra al virus, additandolo drammaticamente come esempio negativo al resto del mondo. Con risultati catastrofici non soltanto per la salute pubblica, ma anche per le prospettive di una ripresa dell’economia dopo questa ennesima, rovinosa mazzata; e, più in generale, per la credibilità italiana sul piano della politica internazionale. Occorre assolutamente un deciso cambiamento di passo nella lotta all’epidemia: che vuol dire innanzitutto percepire fino in fondo la gravità della situazione, e agire con decisione, se necessario con durezza, di conseguenza.
È vitale che, dai più alti vertici istituzionali a tutte le fasce della società, si smetta di considerare sacre e intoccabili tutte le nostre abitudini e comodità consolidate. Che ci si torni a convincere – e molto in fretta – che di fronte a prove difficilissime, in cui è in gioco il futuro del paese, si può e si deve rinunciare per un certo periodo a quote anche consistenti di libertà individuale per il bene della comunità.
Se questo non avverrà con urgenza, esiste il rischio concreto, oltre che di una catastrofe sanitaria ed economica, di un collasso anche formale degli ordinamenti liberaldemocratici, in favore di soluzioni più “sbrigative” e autoritarie. La libertà civile e politica a cui l’Occidente ci ha abituato non può resistere a sfide difficili come quella presente – che nell’incerto mondo post-globalizzato sono sempre incombenti – senza il ritorno ad uno spirito condivisio di autodisciplina.