“Make Italy great again”. Il centrodestra deve ricominciare da una visione comune del futuro

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“Make Italy great again”. Il centrodestra deve ricominciare da una visione comune del futuro

“Make Italy great again”. Il centrodestra deve ricominciare da una visione comune del futuro

22 Settembre 2020

Il centrodestra è riuscito a non vincere elezioni che pure ha sostanzialmente vinto. Ha guadagnato il governo di una regione, quasi sicuramente due, ha aumentato i consensi per le sue liste, ma ancora una volta non è riuscito nella “spallata” che cerca da un anno, e cioè nel tentativo di destabilizzare il governo Conte bis, pur fragile e diviso, e pur gravato dai risultati disastrosi della gestione dell’emergenza Covid.

Ciò non è dovuto soltanto alla scelta, in qualche caso, di candidati vistosamente inadeguati alla situazione. Il fattore veramente decisivo è la mancanza di un’identità chiara e definita nella coalizione di opposizione: la scarsa riconoscibilità in essa di un progetto per il futuro del paese, in grado di presentarsi come chiaramente alternativo a quello della maggioranza giallorossa, suscitando speranza e ottimismo negli elettori.

Va detto che da tale punto di vista il centrodestra in questa legislatura partiva già non propriamente con il piede giusto. Le elezioni del 2018 erano state caratterizzate dalla grande affermazione del Movimento 5 Stelle, che aveva destrutturato rudemente ciò che rimaneva del bipolarismo, e a destra si era assistito alla detronizzazione del berlusconismo ad opera dell’arrembante anima sovranista incarnata dalla Lega di Salvini, e in misura minore da Fdi. A partire da quel vero e proprio terremoto era necessario aprire un cantiere, una riflessione su come superare lo stadio di una rudimentale antipolitica, su cosa avrebbe dovuto essere una destra vincente occidentale nel futuro, su come far convivere sovranismo, liberalismo, conservatorismo. Ma la formazione del governo Conte 1, con il “contratto” tra Lega e pentastellati, stroncava sul nascere questo possibile processo, illudendo a lungo i sovranisti che fosse possibile riassorbire la rivolta antipolitica “vampirizzando” Di Maio e compagni e che non fosse necessario ragionare sul lascito politico e culturale del Cavaliere.

Sappiamo come è andata a finire: con l’azzardo fallito del Papeete, e con il centrodestra riunito sì, ma non per sua volontà, e confinato di nuovo all’opposizione.

La lezione, peraltro, non sembra essere molto servita. Si è trovata una piattaforma unitaria, una leadership, delle parole d’ordine chiare? No. Si è andati invece avanti per forza d’inerzia, sperando appunto nella “spallata”, e sottovalutando sia la forza di resistenza degli apparati piddini, sia quella della disperazione dei “parvenu” grillini, sempre più convinti (a ragione) di aver vinto il biglietto per una sola corsa.

Poi è arrivato il Covid, e le cose non sono certo migliorate. Dopo il caos iniziale, il governo Conte ha deciso di cavalcare spregiudicatamente la paura e di cementarsi attraverso la costruzione di un regime emergenzialistico, pensando di arginare i danni economici, sociali e civili da esso provocati attraverso sussidi e fumose promesse di mirabolanti aiuti Ue.

Cosa avrebbe dovuto fare un’opposizione di destra degna di questo nome? Ribellarsi compattamente, decisamente alla logica illiberale dell’emergenza continua, combattere il terrorismo sanitario, intestarsi subito e con energia la difesa dei ceti produttivi schiacciati, del terziario, della cultura e dell’arte, della scuola e dell’università, contro la paralisi disastrosa provocata dall’esecutivo. E invece abbiamo visto proteste tiepide, sostanziale condivisione dei lockdown (trainati da governatori “più realisti del re”), invocazioni di maggiore assistenzialismo o (da parte di Forza Italia) acritico appoggio alla logica dei prestiti condizionati da parte dell’Unione, nessuna o poca condivisione della rabbia e della frustrazione crescenti nel paese, quasi nessuna menzione delle libertà economiche e civili oggi continuamente calpestate.

Ciliegina sulla torta, la condotta ambigua tenuta sul tema del taglio dei parlamentari e relativo referendum: prima, nelle votazioni della legge costituzionale, il centrodestra si è accodato alla logica antipolitica-giustizialista dei grillini, poi al referendum ha sposato un “Sì” tiepido e non convinto, non mobilitando il proprio elettorato contro la riforma né assumendosene la responsabilità piena. Con l’unico risultato di “salvare la faccia” ai pentastellati, coprendo le loro dèbacle elettorali.

Il risultato è stato che i maggiori consensi guadagnati dal centrodestra in queste regionali sono derivati da fattori occasionali piuttosto che da un senso di appartenenza unitario: figure personali di governatori premiati per la loro opera amministrativa (con forti differenze di profilo tra loro, come nel caso di Zaia e di Toti), volontà di ricambio dopo decenni di amministrazione di sinistra in una regione storicamente “bianca” (è il caso delle Marche), richiesta di “legge e ordine” contro delinquenza urbana e immigrazione clandestina (unico terreno sul quale la destra oggi ha un profilo chiaro, netto, radicale e universalmente comprensibile). Ma i “noccioli duri” del potere rosso, così come i feudi dei nuovi satrapi di para-sinistra “peronista” meridionale (De Luca ed Emiliano) non sono stati minimamente scalfiti.

E ora? Ora la prospettiva quasi certa per il centrodestra è che si andrà a votare alle politiche nel 2023, con una legge elettorale proporzionale più o meno pura, e con un Presidente della Repubblica scelto dagli avversari, estraneo alle sue istanze almeno quanto quello attuale. Tre anni di attesa impotente, con la prospettiva del classico logoramento andreottiano di chi il potere non ce l’ha, e, nella migliore delle eventualità, di una maggiore difficoltà di coagulare una maggioranza per governare in caso di successo elettorale – nonché con la necessità di differenziarsi e farsi la concorrenza per non perdere voti, nella logica polarizzatrice proporzionalistica.

Non è uno scenario incoraggiante, anche al netto degli imprevedibili cambiamenti che subirà, in questo frattempo, lo scenario europeo ed internazionale.

L’unico modo in cui le forze di opposizione possono utilizzare proficuamente questo lungo lasso di tempo, questa ennesima “traversata nel deserto”, è quello di elaborare finalmente una sintesi programmatica, identitaria e simbolica in grado di compattarle, ma anche e soprattutto di presentare la loro coalizione come una scelta di speranza e riscossa per la maggior parte della popolazione.

Qual è l’unico punto di coagulo possibile, e possibilmente vincente, per le diverse culture politiche oggi presenti nel centrodestra? La fiducia nelle capacità del paese di rinascere dalla propria decadenza, di tornare a crescere con le proprie forze, di tornare a far valere le qualità che hanno permesso decenni fa di costruire una tra le prime economie industriali del mondo, esaltando l’originalità, la creatività, il gusto della bellezza.

E’ in questo investimento nello spirito vitale italiano che si può trovare la sintesi tra principi della nazione, della famiglia, della tradizione, della libertà individuale, del mercato, dell’innovazione, dell’Occidente. E’ in esso che si può trovare la migliore risposta alla retorica lugubre dell’antipolitica, dell’assistenzialismo paralizzante, della nullafacenza di Stato, della dissoluzione dell’identità nazionale nel caos di una globalizzazione “low cost”, dell’emergenzialismo “covidista” che uccide il lavoro, lo sviluppo e i legami sociali. In questa congiunzione, se ben articolata e spiegata, conviverebbero fruttuosamente la parte positiva dell’antipolitica (l’avversione alle élites privilegiate) e l’orgoglio di salvare e perpetuare le istituzioni liberaldemocratiche.

Si tratta di un disegno che presuppone una leadership aggiornata, l’investimento in una nuova generazione di dirigenti e militanti, e quasi certamente il superamento degli attuali contenitori partitici.

Il modello indiscutibile di una tale spinta di ribellione alla decadenza, che si spera contagiosa per la società civile, sta al di là dell’Atlantico, e si chiama Donald Trump. Non sappiamo se vincerà la prossima sfida elettorale, ma sappiamo facendo appello a quali leve ha vinto la prima, quattro anni fa.

La prossima destra italiana del 2023 può costruire la sua faticosa marcia verso una possibile vittoria solo a partire dalla riflessione su quella fondamentale esperienza. Ricominciando – se riesce a lasciarsi alle spalle le scorie caduche del passato decennio – dal motto “Make Italy great again”.