Incontri ravvicinati: la lezione di Cristoforo Colombo

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Incontri ravvicinati: la lezione di Cristoforo Colombo

04 Novembre 2007

Quando  ci riferiamo a quell’anno fatale, il 1492, ci è ormai proibito usare la parola “scoperta”. Cristoforo Colombo non ha “scoperto l’America”. Secondo la vulgata impostaci dalla nuova correttezza politica, Colombo ha semplicemente provocato il “contatto” tra due mondi, consentendo l”incontro” tra culture (una volta si diceva “civiltà”) che fino ad allora ignoravano l’una la presenza dell’altra. Francamente, continuo a preferire la parola “scoperta”, che ha il pregio di essere chiara, anche perché nulla vieta che la si usi anche dal punto di vista degli indiani. “Incontro” e “contatto” invece sono termini sbagliati, perché inducono al falso presupposto che prima del 1492 non ci siano stati altri incontri tra comunità, gruppi etnici, nazioni, popoli e culture — il che è completamente falso.

Ma quali parole useremo quando, e se, scopriremo la presenza nello spazio di altre entità intelligenti? Nel suo film del 1977, il regista americano Steven Spielberg aveva usato “incontri” (Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo), Vent’anni dopo (1997), un altro regista hollywoodiano, Robert Zemeckis, aveva preferito “contatto” (Contact), tratto da un racconto dell’astronomo americano Carl Sagan. Ed è quest’ultimo termine, dal sapore un po’ sociologico, che sembra ormai aver preso piede. L’idea di “contatto” sembra infatti portare con sé l’ottimistica idea che, se contatto vi sarà, questo avverrà tra “comunità diverse”.

Della possibilità di un tale incontro — domani, l’anno prossimo nelle generazioni future, o mai — si è discusso in un recentissimo incontro a Vienna (11-12 ottobre) avvenuto sotto l’egida di European Space Policy Institute, European Space Agency e European Science Foundation. Il tema, naturalmente, non è nuovo, ma ciò che ha reso speciale l’incontro di Vienna è stata la compresenza da una parte di astronauti e di scienziati che fanno dei voli spaziali la loro quotidiana attività, e dall’altra di studiosi delle scienze umane e sociali, più attenti invece agli eventuali cambiamenti che un tale incontro provocherebbe nella mente umana e nella nostra società. Nessun rappresentante dei due gruppi esclude a priori la possibilità di un contatto spaziale, se non altro per evitare di fare la figura di quei poveri scienziati spagnoli che sono descritti in tutti i libri di scuola come coloro che sostenevano che Colombo non avrebbe mai potuto raggiungere l’Asia per la via dell’occidente. (Come sappiamo, avevano ragione loro, ma Colombo ebbe dalla sua la fortuna di scoprire l’America.)

Fino a che punto la razza umana si può preparare all’eventualità di un contatto, magari studiando quanto è successo negli incontri del passato, e in particolare in quello del 1492? In passato, i problemi sono stati di due ordini, uno ideologico, e l’altro biologico. Dal punto di vista ideologico, nel 1492 il punto di riferimento era quello della cristianità, i cui valori definivano tanto l’Europa quanto il mondo occidentale nel suo complesso. Il papato, massimo rappresentante di tali valori dal punto di vista della dottrina, non ebbe alcuna difficoltà a integrare il nuovo continente e i suoi potenziali milioni di abitanti, dei quali venne rapidissimamente riconosciuto il carattere umano (anima, libero arbitrio, possibilità di  convertirsi e di salvarsi). Teologi e filosofi ebbero qualche problema a mettere a punto una teoria complessiva (per esempio, gli indiani erano stati o no oggetto di rivelazione?), ma, in linea di massima, la scoperta dell’America rappresentò per la cristianità uno choc ben minore di quello che fu l’arrivo dei mongoli sulla scena europea nel 1221, quando la cristianità scoprì tutto di un tratto il suo carattere di esigua minoranza in un mondo popolato soprattutto da pagani e da mussulmani.

Il secondo problema inerente nel contatto del 1492 fu quello biologico. Si trattò dello scambio di microbi e batteri che venne reso possibile, oltre che inevitabile, dalla migrazione di piante, animali ed esseri umani prima attraverso lo Stretto di Bering e poi attraverso l’Oceano Atlantico. Tra il 1492 e il 1573, in quel periodo che tanto pomposamente quanto erroneamente definiamo “la conquista”, gli spagnoli si insediarono nei Caraibi, lungo le coste continentali di Centro e Sud America, e in molte regioni dell’interno. Tenendo conto che gli spagnoli non erano che poche migliaia e gli indiani svariati milioni, quale fu il segreto del loro successo? Le spiegazioni di marca europea hanno finora insistito sulla violenza degli spagnoli, sull’incapacità indiana di reagire, sulle lotte politiche e i conflitti militari che idebolivano le popolazioni locali. Tutto vero. Ma quello che davvero distrusse gli Indiani furono i microbi che gli spagnoli portarono con sé e per difendersi dai quali gli indiani non avevano anticorpi. In Centro America, inclusi i Caraibi, nove indiani su dieci morirono di malattia nel giro di una generazione. Tale processo continuò in termini simili, anche se rallentando negli effetti, in tutto il resto delle Americhe. Furono influenza, raffreddore, tosse asinina, vaiolo, morbillo e varicella a distruggere gli indiani, non gli archibugi, i cani o i cavalli spagnoli o l’efferatezza dei conquistadores. In Africa, il contatto biologico agì in senso inverso: lì furono gli europei a morire, e l’Africa non venne mai né conquistata, né colonizzata, tranne che in alcune sue regioni e alcuni secoli più tardi.

Ma torniamo rapidamente al futuro, o meglio, al nostro presente. Ci possiamo o no preparare a futuri contatti con entità provenienti dallo spazio? Se partiamo dall’esperienza del 1492, due scenari si aprono di fronte a noi. Il primo è biologico. Quando avverrà il contatto, una delle due parti non sopravviverà, o comunque verrà profondamente indebolita sia fisicamente che psicologicamente. A costo di sembrare razzisti, non possiamo che sperare che sia la razza umana ad avere la meglio, anche se, una volta distrutta la razza aliena, ci sarà certamente chi si farà venire i sensi di colpa e idealizzerà le virtù del “nemico”. È già successo.

Il secondo scenario è ideologico. Se la biologia non rappresenterà il fattore decisivo, allora l’arco di possibilità potrà variare tra l’omino grigio e buono di Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo e le terribili macchine da guerra di Guerra dei Mondi (2005), ancora di Spielberg. Tra questi due estremi, avremo tutte le possibili varianti di categorie indicative di cambiamento volontario, quali aggiustamento, adattamento e compromesso. Fino a che punto queste modificazioni influiranno sui valori della razza umana non siamo in grado di dire. La razza aliena potrebbe anche avere valori morali più elevati dei nostri, e in tal caso dovremmo scegliere se accettare quei valori, perdendo parte della nostra identità di razza umana, o rimanere attaccati ai nostri. Ma di quali valori stiamo parlando? Dei nostri o dei loro? Mi si consenta il riferimento a un altro film, Balla coi Lupi (1990), del regista e attore americano Kevin Costner. Per il tenente unionista John Dunbar, quel suo farsi a poco a poco sempre più Sioux significava tradire la razza bianca, o non piuttosto meglio aderire ai fondamentali comandamenti morali di quella stessa razza, anche se questi venivano messi in pratica da una razza “aliena”? Insomma, è ipotizzabile che entità provenienti dallo spazio abbiano i nostri stessi comandamenti morali?

L’incontro di Vienna, e l’ampio dibattito che ha avuto luogo tra scienziati e umanisti, mi ha portato alle due seguenti conclusioni. La prima è che gli scienziati che hanno a che fare con lo spazio sono molto più scettici degli umanisti sulla possibilità reale di un contatto spaziale, tanto dal punto di vista tecnologico, quanto da quello del calcolo delle probabilità. Gli umanisti invece sono certamente più possibilisti di loro, ma è chiaro che per loro l’ipotetico contatto spaziale è soprattutto una nuova e inusuale prospettiva attraverso la quale meglio comprendere la complessità intellettuale della razza umana, o quantomeno di coloro che fanno parte del mondo occidentale. Insomma, ipotizzando il contatto spaziale, si capiscono meglio le implicazioni del 1492.

La seconda conclusione è che in realtà non abbiamo alcuna posibilità di prepararci a un eventuale contatto. Non possiamo mettere a punto nuove armi, perché non conosciamo il nemico. Non possiamo produrre alcunché di utile, perché non sappiamo quello che ci servirà. Non possiamo pensare ad alcuno scambio, perché non sappiamo che cosa ci servirà o servirà a loro. Non possiamo chiamare in causa Dio, perché non sappiamo se quel Dio sarà il nostro o il loro.

Quando ebbe luogo l’incontro del 1492, nessuna delle due parti era pronta. Gli indiani non erano pronti a respingere i microbi e i batteri europei. Gli spagnoli non erano pronti a conquistare e soprattutto a gestire un territorio così vasto e inusuale. Gli Algonchini non sapevano che i francesi avrebbero tanto apprezzato le loro pellicce usate. Gli inglesi si stupirono di quanta importanza avessero per i Penobscot le loro inutili perline di vetro. Gli irlandesi non erano pronti a nutrirsi di patate. I napoletani non erano pronti a mettere il pomodoro sulla loro pizza. Né i cinesi erano preparati a suicidarsi in massa fumando miliardi di sigarette, prodotto di quel tabacco con il quale, forse, gli indiani si vendicarono della conquista europea.

Nel suo complesso, la razza umana ha mostrato in passato di essere in grado di sopravvivere, anche se spesso a prezzo di costi enormi per gli individui, attraverso l’aggiustamento, l’adattamento e il compromesso. C’è soltanto da sperare che, quando sarà il momento, questa sua innata capacità si mostrerà nuovamente in tutta la sua forza.