Le élites progressiste vogliono espellere con le buone o le cattive il “corpo estraneo” Trump

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Le élites progressiste vogliono espellere con le buone o le cattive il “corpo estraneo” Trump

07 Novembre 2020

La democrazia statunitense resta la più grande e meglio funzionante del mondo, ed è doveroso aver fiducia che il suo sistema equilibrato di freni e contrappesi riuscirà ad assicurare il rispetto della effettiva volontà popolare espressa nelle elezioni presidenziali del 3 novembre, così come i legittimi diritti di entrambe le parti in causa. Non è la prima volta, dopo la Guerra di secessione, che nella storia politica del paese si producono conflitti acuti, situazioni al limite e contestazioni legali, ma l’assetto costituzionale è riuscito sempre ad assorbire le spinte più destabilizzanti salvaguardando i suoi princìpi di libertà, uguaglianza e supremazia del diritto.

Detto questo, però, soltanto un cieco può non vedere che con le elezioni presidenziali del 2020 sta succedendo qualcosa di inedito e assolutamente preoccupante, in termini di polarizzazione ideologica ma anche di forzatura del sistema democratico americano.

Nelle consultazioni è venuto a maturazione uno scontro radicale imperniato sulla figura di Donald Trump, il presidente che si è imposto nel 2016 non soltanto contro l’establishment del partito democratico, rappresentato da Hillary Clinton, ma anche contro quello del partito repubblicano, ponendo al vertice dell’Unione una figura fortemente dirompente, che ha suscitato un costante rigetto da parte del mainstream politico, mediatico, intellettuale nordamericano, ma – proprio per la sua eccentricità rispetto a quel mainstream – ha catalizzato il consenso trasversale di ampie fasce della società statunitense sofferenti per le dinamiche socio-economiche  della globalizzazione “a trazione cinese” e per la penalizzazione del “paese reale” rispetto alle grandi corporations.

Le elezioni del 2020 sono diventate un referendum pro o contro Trump, in cui non soltanto tutto il blocco sociale delle élites borghesi urbane  “da costa a costa” è confluito sulla pallida candidatura di Joe Biden come antidoto e antitesi al “trumpismo”, ma con pochissime eccezioni l’intero sistema dei media, dell’intrattenimento, persino dei social network, si è mobilitato compatto per delegittimare il presidente in carica, dipingerlo come un barbaro estraneo alla civiltà, e letteralmente espellerlo dalla politica e dal consorzio civile: portando alle estreme conseguenze la sistematica demonizzazione ormai operata dal progressismo occidentale contro qualsiasi attore politico e culturale “trasgredisca” al “catechismo” ideologico politicamente corretto. E a tale scopo ha persino aizzato, coccolato, giustificato i movimenti violenti, apertamente insurrezionali di estrema sinistra Black Lives Matter e Antifa, usandoli come un’ariete anti-trumpiana, e nel contempo come un modo per accusare Trump di fomentare il caos sociale.

In questo gioco al massacro, l’epidemia di Covid è stata a sua volta spregiudicatamente sfruttata dai suoi oppositori per additare Trump come il “nemico pubblico numero uno”, accusandolo di essere responsabile di una catastrofe sanitaria per un virus che ha fatto invece oggettivamente negli Stati Uniti meno danni che in altre parti del mondo, e segnatamente in Europa occidentale, proprio per la politica di buon senso tenuta dal presidente, contrario ad ogni esasperazione emergenzialista: politica grazie alla quale peraltro l’economia americana ha recuperato gran parte del Pil e dell’occupazione perduta nei mesi primaverili. Proprio nel contesto dell’esasperazione allarmistica per il Covid lo schieramento antitrumpiano ha preteso, e ottenuto, che fosse ampliata indiscriminatamente la facoltà per gli elettori di votare per posta, consentita già dalle leggi federali e statali ma soltanto in casi specifici di elettori impossibilitati a recarsi alle urne personalmente: per incentivare la partecipazione elettorale anche in strati di elettori Dem in genere poco reattivi.

Il voto postale è così diventato un fenomeno di massa (è stato usato in questa occasione da ben 84 milioni di elettori), venendo a determinare una forte turbativa dello spoglio elettorale, ed amplificando a dismisura la tensione e l’incertezza politica nel paese. Si tratta di una modalità di espressione del suffragio che già nella versione precedentemente più usata – lo “absentee ballot”, il voto su scheda richiesta esplicitamente dall’elettore – poneva grandi problemi di possibile inquinamento della regolarità delle consultazioni, a causa della mancanza di garanzie sulla segretezza e sull’identità del consenso espresso, mai del tutto verificabili. Ma problemi molto maggiori, fino alla soglia dell’impraticabilità, ha suscitato la versione allargata di quella modalità, attuata attraverso la spedizione delle schede a casa di tutti gli elettori, con tutte le incertezze sulla corrispondenza tra le liste elettorali ufficiali e gli elettori reali, sulla ricezione delle schede stesse, sull’identità di chi ne entra in possesso, sulla raccolta, lo stoccaggio, la distribuzione ai seggi delle schede compilate da parte dei servizi postali. Fino all’ulteriore disordine determinato dalla scelta di alcuni stati – in primis la Pennsylvania – di consentire anche lo spoglio di schede pervenute senza timbro postale, o in ritardo di giorni rispetto al giorno delle consultazioni. Scelta che, da sola, può pregiudicare la regolarità e il controllo di legalità su qualunque operazione di spoglio.

La massificazione del voto postale è diventata quindi la vera e propria bomba piazzata, con la miccia innescata, sotto le presidenziali 2020. E lo svolgimento delle operazioni di scrutinio non ha fatto altro che confermare e alimentare tutti i sospetti che su quel metodo si potevano nutrire, fino a porre in questione la validità stessa dei risultati.

Verso la mezzanotte di martedì 3, i risultati parziali – tra il 70 e il 95% dei voti scrutinati – vedevano una prevalenza di Donald Trump in tutti gli stati ancora contesi che avrebbero potuto far pendere decisamente la bilancia della consultazione in suo favore. A quel punto, lo sfidante Joe Biden rilasciava una dichiarazione pubblica in cui esprimeva ottimismo sull’esito del voto, e invitava i suoi seguaci ad “avere pazienza” fino a che tutte le schede non fossero state scrutinate. Dopo poco, lo scrutinio in molti stati improvvisamente si fermava per essere ripreso il mattino successivo. E, alla ripresa, la tendenza dei suffragi cominciava a cambiare ovunque massicciamente in direzione di Biden, inizando una lunga, travagliata coda dello spoglio segnata da voci incontrollabili su schede pervenute, apparse all’improvviso o scomparse. Una coda che – caso pressoché unico nella storia delle presidenziali – a distanza di quasi una settimana non si è ancora  conclusa con l’annuncio dei risultati definitivi. Ce n’è abbastanza per giustificare quanto meno l’allarme e i ricorsi di Trump, e per alimentare le sue accuse di scippo fraudolento di una vittoria elettorale da lui ritenuta ormai quasi acquisita. Le corti investite del problema delibereranno in merito: ma certo resta l’impressione di una inedita forzatura sull’esercizio della democrazia, messa in opera con tutti i mezzi possibili, e giustificata dall’obiettivo unico di “togliere di mezzo” un rivale percepito e rappresentato come “corpo estraneo” della democrazia stessa.

Un’impressione ulteriormente rafforzata poi – se ve ne fosse ancora bisogno – dal comportamento incredibile che quasi tutti i grandi media statunitensi (e di altri paesi, incluso il nostro) stanno tenendo in questa delicatissima circostanza. Era già accaduto in passato, ma in occasione della contesa elettorale i mezzi di informazione e comunicazione sono apparsi come mai prima non tanto veicoli di notizie e di dibattito pluralistico, ma una compatta falange di militanti, schierati a prescindere contro Trump. Twitter ha segnalato praticamente tutti i post del presidente sull’argomento, bollandoli come truffaldini e cercando così di influenzare l’opinione dei propri utenti, seguito in parte da Facebook. E le più importanti reti televisive sono giunte addirittura a censurare la conferenza stampa tenuta da Trump il 5 novembre, interrompendo la diretta con l’argomentazione inaudita secondo cui le argomentazioni del presidente erano false, e non suffragate da nessuna prova: come se nella contesa politica non esistesse il contraddittorio, ma esistessero verità dogmatiche ufficiali da sposare fideisticamente, e tutte da una parte sola. Un comportamento contrario a qualsiasi deontologia professionale e moralità civile, che segna forse – comunque la si pensi su Trump e Biden – il punto più basso dell’informazione occidentale in tutta la sua storia.

Troppi elementi, insomma, convergono nel far temere una grande operazione di “rigetto” condotta contro Trump dall’establishment progressista, con un uso manipolatorio delle istituzioni al limite o oltre il limite del fair play. Non possiamo che augurarci che tale operazione sia smentita, per il bene della democrazia negli States e in tutto il mondo. Ma si tratta di segnali inquietanti di logoramento del tessuto comune del sistema costituzionale statunitense, che minacciano di portare verso una vera e propria guerra civile strisciante. Le cui responsabilità, nonostante ciò che proclama continuamente la propaganda dei suoi avversari, non sarebbero addebitabili a Donald Trump.