Karol Wojtyla, il peso internazionale della Chiesa e l’urgenza di annunciare il Vangelo

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Karol Wojtyla, il peso internazionale della Chiesa e l’urgenza di annunciare il Vangelo

Karol Wojtyla, il peso internazionale della Chiesa e l’urgenza di annunciare il Vangelo

19 Maggio 2020

Pubblichiamo una sintesi della relazione di Eugenia Roccella sul pontificato di Karol Wojtyla esposta nel corso dell’evento “A Cesare, a Dio – Chiesa e Politica nei pontificati di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco” organizzato dalla Fondazione Magna Carta e tenutosi ad Anagni il 30 novembre e 1 dicembre 2019.

Per capire il peso di Karol Wojtyla sulla scena della politica internazionale, bisogna tornare all’8 aprile 2005, il giorno dei suoi funerali. La sua morte produce un enorme momento di commozione in tutto il mondo, e la cerimonia funebre, oltre ogni retorica, rimanda l’immagine grandiosa di una chiesa, di un papato, visibilmente universali, di un potere senza potere al quale tutti i veri potenti della terra vengono a rendere omaggio. Fedele al suo stile fino alla fine, Wojtyla riuscì a creare intorno alla sua morte l’ultimo, involontario, grande evento del suo pontificato, riunendo intorno a sé il maggior numero di autorità politiche della storia. A scorrere le presenze, tra sovrani e presidenti, non si può non rimanere impressionati: in rappresentanza degli Stati uniti, per esempio, oltre al presidente in carica, George Bush, al segretario di Stato, e due ex presidenti, Clinton e Bush padre, assistettero alla cerimonia decine di membri del congresso, tra cui Ted Kennedy e Michael Bloomberg, che però furono collocati tra il pubblico, fuori dalla basilica, perché la Santa sede fu costretta a limitare il numero dei componenti delle delegazioni ufficiali, data la strabordante massa di partecipanti. Ma insieme ai potenti, ci furono i fedeli, anch’essi massa strabordante. Per dare l’estremo saluto al papa, più di tre milioni di pellegrini confluirono a Roma, rimanendo in fila per ore e ore, di giorno e di notte.

Uno spettacolo a cui ventisette anni prima non avremmo mai immaginato di assistere, con Papa Montini isolato e avvilito dalle reazioni con cui era stata accolta la sua ultima enciclica, l’Humanae vitae, sconvolto dalla tragedia della morte di Aldo Moro, e con una Chiesa che sembrava avviata al declino, in una società che cambiava in modo tumultuoso. Anche in Italia, come era già avvenuto in gran parte del mondo occidentale, la Chiesa cominciava a perdere la sua tradizionale influenza. Non solo c’era stata la sconfitta decisiva sul divorzio, ma il parlamento italiano, pochi mesi prima della scomparsa di Paolo VI, aveva votato anche la legge sull’aborto. Dopo la morte di papa Luciani il Time titolò: The Church in shock, riferendosi al clima generale dentro la Chiesa, non soltanto allo smarrimento per la fine improvvisa dell’uomo appena salito al Soglio di Pietro.

Nel suo lungo pontificato –e le immagini del funerale sono, in questo senso, esemplari- Giovanni Paolo II è riuscito a rovesciare la

situazione, a riconquistare uno spazio a livello mondiale per la Chiesa, ad affermarne la presenza significativa e rilevante nella società contemporanea.

Per comprendere il senso dell’azione di papa Wojtyla non si può prescindere dai numeri, che dicono molto delle sue convinzioni, del suo progetto e della sua visione del mondo. Sono spesso riportati, perché sono numeri da record, per quanto riguarda i viaggi e i chilometri percorsi, le udienze con capi di stato e politici, gli incontri con il popolo cristiano, le folle oceaniche che accorrevano al suo richiamo; ma anche il numero di nuovi santi (482) e beati (1338), a dimostrazione che la fede ha sempre continuato ad esprimere testimonianze vive di ordinaria santità. Queste cifre raccontano una strategia e un’urgenza: l’insopprimibile urgenza di portare il Vangelo in ogni parte del mondo, nel quadro di una strategia precisa, far comprendere come Cristo e la modernità non siano nemici, e anzi, la modernità senza Cristo inaridisce l’umanità, e chiude la porta alla speranza.

Il papa è perfettamente consapevole dei rischi della secolarizzazione, degli enormi e veloci mutamenti introdotti dalla postmodernità e dei loro effetti sulla crisi della fede; elabora però una risposta originale. Fino ad ora le fibrillazioni della Chiesa di fronte alla modernità sono riconducibili a due classici atteggiamenti, che semplificando potremmo indicare come: il rifiuto, l’arroccamento, o, al contrario, l’idea che la modernità vada inseguita, per cogliere i segni dei tempi e adeguarvisi. Giovanni Paolo II fa qualcosa di diverso. E’ fortemente convinto che il cattolicesimo sia una religione di popolo, che debba continuare ad esserlo, e che rappresenti la più autentica forza di liberazione dell’uomo e dei popoli (e anche per questo non apprezza la teologia della liberazione). La fede cristiana, se pienamente vissuta, può intervenire nella storia, come è già accaduto, e cambiarne il corso. In un discorso del 2003 rivolto ai diplomatici accreditati in Vaticano, dice: “Sono impressionato dal sentimento di paura che dimora sovente nel cuore dei nostri contemporanei. (…) Ma tutto può cambiare. Dipende da ciascuno di noi. È possibile cambiare il corso degli eventi .”

E’ un’idea di uomo, di popolo, intimamente connessa con la presenza del Cristo nella storia. La consapevolezza acutissima dei processi

storici e culturali in atto non implica che siano inarrestabili; per Giovanni Paolo II la scristianizzazione non è una tragica fatalità, a cui opporre magari la vitalità fiduciosa e ricca di fede e di intelligenza di una minoranza creativa. Wojtyla non pensa affatto a una minoranza creativa, piuttosto a una maggioranza battagliera, vuole fecondare con la fede quella che considera una modernità triste, desolata, e, nel suo esito finale, antiumana. L’idea di essere portatore di una proposta di salvezza per l’uomo è per lui una offerta a cui non si può dire di no, perché senza Cristo siamo tutti deprivati dell’essenziale (il cardinale Biffi avrebbe detto “sazi e disperati”). L’impeto missionario, il suo famoso “non abbiate paura”, viene da questa consapevolezza e da questa fiducia.

Il declino della fede nella Chiesa è stato spesso subìto, sempre contrastato, talvolta accompagnato, nell’illusione di addolcirlo, ma mai combattuto con la gloriosa sicurezza di Giovanni Paolo II: solo Cristo può rendervi felici, oggi come ieri come domani, nella modernità e oltre. Non c’è in lui nessuna rassegnazione alla sconfitta.

I raduni di massa, le sue parole dirette e profetiche, dimostravano la capacità di intercettare stili e linguaggi del moderno, di appropriarsene pienamente, di condividerli, perché la fede può essere incarnata e vissuta in ogni epoca storica, in qualunque condizione. Wojtyla sapeva essere “leader carismatico”, sapeva trasmettere il messaggio cristiano con la forza e l’entusiasmo in grado di arrivare al cuore delle persone. Penso che i politici abbiano riconosciuto e rispettato, in lui, questa spontanea capacità di essere leader, a capo del popolo di Dio.

E’ questa potenza, uso il termine in senso antropologico, che gli permette di intervenire con efficacia nella politica internazionale, contro il comunismo e l’Unione sovietica, per la libertà della sua Polonia, con slancio idealista e non attenendosi alla tradizionale politica di prudenza della Chiesa, che seguirà invece in altre occasioni. Per lui l’Urss non è solo un regime totalitario, nemico del cristianesimo, ma un’utopia alternativa alla fede che deve crollare, che non può che crollare. Il suo ruolo è stato di far capire che questo era possibile.

Si parla sempre del ruolo di GP sulla scena mondiale, ma Woytila aveva anche molto a cuore i destini dell’Italia. Non ha mai dimenticato di essere il vescovo di Roma, anche se, primo papa

venuto “da lontano”, non poteva essere, come sono stati i suoi predecessori, immerso nella rete di legami e rapporti con l’ambiente del cattolicesimo politico italiano.

La sua preoccupazione per il nostro paese riguardava soprattutto quella “eccezione italiana” che aveva pienamente compreso, e che avrebbe voluto mantenere e valorizzare, per farne una leva preziosa nel progetto di rievangelizzazione dell’Europa: “All’Italia, in conformità alla sua storia, è affidato in modo speciale il compito di difendere per tutta l’Europa il patrimonio religioso e culturale innestato a Roma dagli apostoli Pietro e Paolo. Di questo preciso compito dovrà avere chiara consapevolezza la società italiana nell’attuale momento storico.”

E’ in questa chiave che vanno compresi i suoi interventi, a partire dal famoso, e decisivo, convegno di Loreto nel 1985. Il cardinale Ballestrero, presidente della Cei, sosteneva la cosiddetta “scelta religiosa”, per cui aveva optato l’Azione cattolica. Nella relazione introduttiva, monsignor Bruno Forte parlò della «faticosa dialettica fra i cosiddetti cristiani della presenza e i cosiddetti cristiani della mediazione». Da quella linea provengono i “cattolici adulti”, che rivendicano la piena responsabilità delle scelte politiche, per lasciare alla Chiesa il compito di formare le coscienze. Ma nel suo discorso il papa sorprende tutti riaffermando invece l’ esigenza dell’ “impegno unitario” per realizzare una presenza pubblica forte e visibile del cattolicesimo italiano, perché la fede cristiana recuperi «un ruolo-guida e un’efficacia trainante, nel cammino verso il futuro»; inoltre incoraggia «associazioni e movimenti che costituiscono, in effetti, un canale privilegiato per la formazione e la promozione di un laicato attivo e consapevole del proprio ruolo nella Chiesa e nel mondo», legittimando movimenti come l’Opus Dei e Comunione e Liberazione.

Un’ultima considerazione sull’eccezione italiana, che Wojtyla così lucidamente aveva individuato, affidando al nostro paese un compito di testimonianza combattiva, di trincea da difendere per poter ripartire. Quella eccezione è stata assediata e infine smontata grazie a sforzi ostinati. Non era un’idea astratta, ma una formula felice che sintetizzava fatti assai concreti, una differenza leggibile nei dati. La famiglia italiana, ancora vent’anni fa, manteneva la sua forza attrattiva: le nozze si celebravano in chiesa, separazioni e divorzi erano in numero sensibilmente inferiore a quello del resto

d’Europa, i figli nascevano all’interno del matrimonio, con una mamma e un papà garantiti.

La tenuta del tessuto sociale e comunitario era legata al profondo e diffuso radicamento della cultura cattolica. Era quel radicamento spesso inconsapevole che produceva solidarietà, sussidiarietà, vocazione al volontariato, e altri tratti caratteristici come la propensione al risparmio, l’impresa familiare, la diffusione della casa di proprietà, la cura domestica di anziani e disabili.

Oggi abbiamo il similmatrimonio omosessuale, con il corollario dei bambini nati da utero in affitto, abbiamo la possibilità di ricorrere alla procreazione in laboratorio utilizzando seme e ovociti comprati sul mercato e ordinati su catalogo, abbiamo appena introdotto il farmaco-gender per eccellenza, la triptorelina, per bloccare lo sviluppo degli adolescenti, in attesa che decidano a quale genere vogliono appartenere. E adesso avremo anche il suicidio assistito. I dati su matrimoni e divorzi sono allineati a quelli europei, il calo demografico è ormai una voragine.

Ma la forza per continuare a sperare e lottare la troviamo ancora nelle parole di Giovanni Paolo II: “I laici cristiani non possono sottrarsi alle loro responsabilità. Devono piuttosto testimoniare con coraggio la loro fiducia in Dio, Signore della storia, e il loro amore per l’Italia.”