Eluana Englaro: quando la politica sa essere la più alta forma di carità
09 Febbraio 2021
Il 9 febbraio del 2009, in un reparto blindato e costituito ad hoc all’interno di una casa di riposo di Udine, sola, senza nessuno dei suoi affetti accanto, moriva Eluana Englaro. Soltanto i volontari dell’associazione che si era offerta di applicare la sentenza della Cassazione erano con lei, solo loro hanno assistito alla sua fine, prodotta dalla sospensione di idratazione e nutrizione, acqua e cibo. Il nome di Eluana, però, il suo volto sempre sorridente che abbiamo visto in mille fotografie in quel periodo, non è diventato la bandiera pro eutanasia che chi ha combattuto per farla morire si immaginava. Non è accaduto per lei quello che è accaduto con Piergiorgio Welby o DJ Fabo, anzi: quel nome e quel volto sono causa di imbarazzo per gli avversari del favor vitae. Quel nome e quel volto ricordano soprattutto una battaglia politica aspra e generosa per salvarle la vita, che ha condotto a uno scontro ai massimi livelli istituzionali tra il presidente della repubblica Napolitano e il presidente del consiglio Berlusconi, e che ha colto di sorpresa i gruppi che avevano pazientemente creato il caso (come racconta Maurizio Mori, grande sostenitore del diritto a morire, in un suo libro) e che contavano sulle sentenze per aprire un varco all’eutanasia nel nostro paese.
Tutta la storia è raccontata in un libro scritto da una dei protagonisti di quella battaglia, Eugenia Roccella, all’epoca sottosegretario alla Salute, con il ministro Maurizio Sacconi. Del libro, pubblicato da Rubbettino nel 2019, e intitolato “Eluana non deve morire”, riportiamo alcuni stralci.
“Il pomeriggio del 16 dicembre un’ambulanza parte da Udine per andare a Lecco a prendere Eluana, e portarla nella clinica indicata dalla stampa. Sembra si sia arrivati davvero all’ultimo atto. Al Ministero della Salute, però, non siamo stati inerti ad attendere gli eventi, e nel frattempo abbiamo verificato, con il ministro Sacconi, se le strutture pubbliche possano effettivamente applicare un protocollo come quello suggerito dai giudici milanesi.
Dalle ricognizioni effettuate emerge che i problemi amministrativi, e non solo quelli etici, sono innumerevoli. L’organizzazione della sanità infatti, è tutta indirizzata alla cura e alla tutela della vita, e non prevede la possibilità di dare la morte. Accettando di ricoverare Eluana per applicare la sentenza si incorrerebbe automaticamente in una serie di ostacoli e di problemi amministrativi insolubili. (…)
L’atto di indirizzo getta i fautori della morte di Eluana nell’incertezza: gli amministratori della clinica sono ben coscienti che per staccare il sondino è necessario aggirare o ignorare una serie di norme. Di fronte a un ministero che richiama al rispetto delle regole e della legge, e che fa sul serio, qualcuno pensa che il rischio non valga la candela. Così, ancora una volta, l’esecuzione della sentenza è sospesa. L’ambulanza, alle 22.30, fa dietrofront e torna a Udine, vuota. Insorgono, sorpresi e sdegnati, i sostenitori di Englaro, a cominciare dal giudice Amedeo Santosuosso, che protesta la totale inefficacia dell’atto di indirizzo di Sacconi. Interviene anche Palamara, allora presidente dell’Anm: «È fondamentale in uno stato di diritto rispettare le decisioni dei giudici, che sono l’essenza dello svolgimento dello stato democratico».
Ma non ricorda che si tratta di una sentenza, come abbiamo ripetuto mille volte, di volontaria giurisdizione, e dunque non c’è obbligo a eseguirla. Inoltre è indubbio che la sua applicazione confligge con le regole del Servizio sanitario (un fatto di cui i magistrati evidentemente non tengono conto); questo punto è centrale, ed è il motivo per cui gli amministratori della clinica si sono fermati.
Vedremo poi che per aggirare gli ostacoli amministrativi e normativi ci sarà bisogno di inventare una complicata prassi ai limiti della legge, trasformando le stanze della struttura in cui Eluana finirà i suoi giorni in una sorta di “isola che non c’è”, una zona extraterritoriale all’interno della sanità pubblica, un mondo a parte in cui non esistono più regole, garanzie e responsabilità su quello che accade all’interno”.
Un’altra struttura di Udine, una casa di riposo, accetta quindi di ricoverare Eluana, ufficialmente per applicare un programma di riabilitazione. Una volta trasferita, però, si mette in moto il meccanismo ideato dal gruppo di legali che sostengono Beppino Englaro, e la paziente viene affidata all’associazione che applicherà il protocollo di morte. La sorte di Eluana è decisa.
“In quella tragica settimana, la politica interviene di nuovo, e questa volta con tutto il peso possibile, e ai massimi livelli: venerdì 6 febbraio il Consiglio dei Ministri, all’unanimità, approva un decreto salva-Eluana, per proibire la sospensione di idratazione e nutrizione a una persona non autosufficiente, quindi non in grado di bere e mangiare da sola. Lo ha fortemente voluto Silvio Berlusconi, e il governo è tutto con lui. Il Presidente della Repubblica, che in ogni modo aveva segnalato la propria contrarietà all’iniziativa, nega la firma, impedendo l’attuazione del decreto. Eppure Napolitano aveva scritto che «una legge era indispensabile e improcrastinabile»; ma ora che il governo emana un decreto, ritiene che non ci siano i requisiti d’urgenza, e quindi che la legge sia procrastinabile. È un pesantissimo scontro istituzionale, senza precedenti nella storia della nostra Repubblica. Berlusconi però non cede. La sera stessa riconvoca il Consiglio dei Ministri, e il decreto è immediatamente trasformato in disegno di legge: il Presidente della Repubblica non potrà rifiutare la firma a un testo votato dal Parlamento.
Adesso si corre davvero contro il tempo, perché proprio da quel venerdì mattina Eluana non viene più nutrita. Se il nuovo disegno di legge non sarà approvato in tempi brevissimi, il destino della giovane donna è segnato”.
Ma il 9 febbraio, alle 20.24, mentre al Senato si sta per votare il provvedimento che le salverebbe la vita, le agenzie diffondono la notizia della morte di Eluana Englaro.
Sembra la storia di una sconfitta, l’ennesima vittoria della magistratura “creativa”, contro gli sforzi generosi della politica. Ma non è così. Come abbiamo già detto, Eluana, che doveva essere un simbolo del diritto a morire, è rimasta, nell’immaginario collettivo, semplicemente una vittima, strappata alle cure affettuose delle suore di Lecco per essere portata a morire di disidratazione in una stanza dalle finestre oscurate. Nella storia di questa vicenda la battaglia politica resta come testimonianza di quello che la politica può fare quando, come diceva Paolo VI e come la Roccella ricorda, sa essere “la più alta forma di carità”.