
L’Europa si gioca tutto tra i Balcani e Kabul

20 Febbraio 2008
Quando l’Unione europea in questi ultimi mesi si è trovata ad affrontare la complicata questione Kosovo ha dovuto fare i conti con tre pesanti scheletri custoditi negli armadi della sua stentata e spesso confusa diplomazia. 1993/1995-1999-2003. Queste tre date riportano alla memoria gli ultimi tre grandi fallimenti della diplomazia europea, incapace di sostituirsi in maniera coerente all’inutilità dell’Onu.
Guerra balcaniche ed inazione europea di fronte all’assedio di Sarajevo e alle fosse comuni di Srebrenica, con i caschi blu olandesi spettatori di tutto ciò che stava accadendo.
Pulizia etnica del Kosovo e decisione americana di far intervenire la Nato con bombardamenti aerei e poi con l’invasione delle truppe di terra: ancora una volta l’Europa in drammatico ritardo che si fa scavalcare dall’alleato Usa anche nelle questioni che riguardano il «suo cortile di casa».
Infine l’inizio del 2003 e la profonda divisione all’interno dell’Unione sulla guerra in Iraq, con la peggiore frattura in cinquant’anni di storia della costruzione europea. Da una parte Francia e Germania guidate da Chirac e Schröder pronte a sfruttare l’ondata pacifista e antiamericana delle proprie opinioni pubbliche e dall’altra la «coalizione dei volenterosi», guidata dalla troika Madrid-Londra-Roma e l’appoggio di quasi tutti i Paesi di recente ingresso (in particolare la Polonia).
Quindi due peccati di immobilismo e una profonda frattura, in realtà superata più dagli eventi (cambi di maggioranze nazionali ed evoluzione della guerra in Iraq) che da una vera riflessione interna all’Ue sulle modalità di approccio alle grandi crisi internazionali. Quando i Ministri degli Esteri dell’Ue si sono trovati a fare i conti con la tanto attesa dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte del Kosovo probabilmente avevano ben presenti questi tre fallimenti. E l’immobilismo e l’inazione sono stati scongiurati.
Per la prima volta nella sua storia l’Ue ha deciso di emanciparsi dal vincolo delle Nazioni Unite. Ha, infatti, dispiegato il suo personale civile (poliziotti, magistrati, doganieri nel numero di circa 2000) con l’intenzione di sostituirsi progressivamente alla missione Onu (Unmik) anche senza una nuova delibera del Consiglio di Sicurezza, destinata inevitabilmente ad essere bloccata dal veto di Mosca (e quasi certamente, viste le dichiarazioni polemiche, anche da quello di Pechino). Il quadro di riferimento resta ancora la risoluzione 1244 adottata dal Consiglio di Sicurezza Onu il 10 giugno 1999, che però parla di autonomia del Kosovo e non certo di indipendenza. Decidendo di rompere gli indugi, andare oltre le indecisioni e le lentezze delle Nazioni Unite, l’Unione europea ha dato prova di un coraggioso gesto di volontarismo ed attivismo politico, non scontati se si considerano i suoi recenti insuccessi.
Superato il rischio della stasi, rimaneva da risolvere quello delle possibili fratture interne all’Ue sulla prospettiva del riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo. Lo scetticismo di alcuni Paesi membri con complicate situazioni interne di minoranze in cerca di autonomia o addirittura indipendenza (Spagna, Grecia e Romania in particolare) era noto. Sin da subito il campo era stato dunque sgomberato: nessun riconoscimento dell’indipendenza a livello di Unione europea.
I Ministri degli Esteri riuniti lunedì 18 febbraio a Bruxelles sono allora giunti ad una mediazione, che in realtà fa rima con “rottura mascherata”. Libertà di riconoscimento bilaterale a ciascun Paese membro, ma nessun obbligo derivante dalle decisioni degli altri partners: insomma avanti in ordine sparso. Rispetto alla frattura del 2003 certamente meglio così, per lo meno è stata salvata la faccia e soprattutto il dispiegamento della missione civile occupa la scena e dà l’impressione di un attivismo, anche se per certi aspetti ambiguo, visto che verrà inviato personale anche da parte di Stati che non hanno ancora sciolto la riserva sul riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo e il tutto si svolgerà comunque sotto lo sguardo militare attento della Nato.
Al momento si registra il «sì» entusiasta della Francia (come poteva essere altrimenti visto il ruolo svolto nell’area dall’attuale Ministro degli Esteri Kouchner e il filoamericanismo della diplomazia di Sarkozy) e quello «inevitabile» dell’Italia. A Madrid ci si affanna a considerare «il caso del Kosovo, un caso sui generis, che non costituisce nessun precedente» e con occhio preoccupato si guarda alla minoranza basca, il cui risveglio potrebbe fare molto male a Zapatero in piena campagna elettorale.
Al di là delle singole posizioni, come molti osservatori hanno ribadito, quello del Kosovo è probabilmente l’ultimo test a disposizione dell’Ue per invertire la rotta rispetto alla sua irrilevanza internazionale. Qualcosa obiettivamente si è mosso. Ci si poteva attendere di più? Joschka Fischer si dice molto rammaricato delle nuove divisioni dell’Europa. La partita è ancora aperta, ma di certo la scelta di marciare in ordine sparso sul riconoscimento dell’indipendenza è un grande vantaggio offerto alla Russia di Putin che potrà, come al solito, giocare la sua partita anche sulle fratture interne all’Ue.
Nel bene e nel male il Kosovo, ed in generale i Balcani, sono uno dei due specchi nei quali si riflettono ambiguità ed opportunità future dell’Unione europea. L’altro è l’Afghanistan, dove i Paesi europei presenti con truppe Nato non stanno certo facendo una bella figura. La credibilità del Vecchio Continente si gioca oggi su questi due scenari. C’è da sperare che la brutta pagina di Kabul possa essere parzialmente mascherata da un reale attivismo politico nel Kosovo.