I sondaggi non fermano le riforme di Sarkozy
27 Febbraio 2008
Cosa sta succedendo a Nicolas Sarkozy, l’iper-presidente che
ha dominato l’orizzonte politico europeo praticamente per tutto il 2007? Il suo
livello di gradimento presso l’opinione pubblica è ai minimi storici,
soprattutto per un Presidente eletto da soli nove mesi. L’ultimo sondaggio è
davvero impietoso: solo il 38% degli intervistati giudicano positivamente il
suo operato e, fatto ancor più anomalo nella storia della Quinta Repubblica, il
suo Primo ministro, François Fillon, lo supera di circa 20 punti percentuali. Sono
proprio i precedenti storici a rendere ancora più allarmante la situazione per
l’inquilino dell’Eliseo (57%). Considerati i primi nove mesi di mandato di
tutti i Presidenti, eccetto de Gaulle e Pompidou costantemente su livelli molto
alti (esclusa la parentesi della crisi del 1968 per il Generale), soltanto
Chirac nel periodo 1995-1996, e in piena crisi sociale, toccò il fondo con il
36% di gradimento. Ma in quella fase la situazione era davvero drammatica per
la maggioranza di centro-destra, basti pensare che il Primo ministro Juppé
viaggiava sotto al 30%. Comunque mai nella storia della Quinta Repubblica un
Presidente, per lo meno nel suo primo anno di mandato, era stato superato nel
livello di gradimento dal suo Primo ministro. Anche da questo punto di vista la Presidenza Sarkozy
può essere considerata una rupture.
Tutta colpa della querelle con Carla
Bruni?
Se si trattasse solo di gossip e glamour, probabilmente i
problemi del Presidente sarebbero più semplici da risolvere. In realtà il crollo
della sua popolarità è frutto di una molteplicità di fattori. Quello relativo
alla sovra-esposizione della sua vita privata può essere considerato solo un
sottoinsieme della più generale difficoltà mostrata nell’incarnare la funzione
presidenziale. Da questo punto di vista il paragone con il suo Primo ministro è
di grande utilità. Mentre Sarkozy ha offerto l’immagine di una presidenza
agitata e spesso eccessiva (basti pensare al recente incidente al Salone
dell’Agricoltura di Parigi o al contenzioso aperto con il Consiglio
Costituzionale sulla legge relativa ai delinquenti recidivi), Fillon ha dato
l’impressione, ogni giorno di più, del politico che prima di tutto serve lo
Stato, ne rispetta la costituzione materiale e vuole far parlare di sé solo e soltanto
attraverso i risultati del proprio lavoro. Il rapporto con i media rende
perfettamente l’idea della distanza tra i due: sovra-esposizione per
l’inquilino dell’Eliseo, basso profilo fino alla scontrosità per Fillon.
Contravvenendo ad una regola non scritta della Repubblica
gollista, l’alta politica al Presidente e l’ordinaria amministrazione al Primo
ministro, Sarkozy ha concentrato su di sé la gestione, anzitutto comunicativa,
di ogni singolo dossier e cantiere di riforma. Una scelta che in caso di
successo, come accaduto per la ripartenza della costruzione europea o la
liberazione delle infermiere bulgare, naturalmente ha pagato. Nel momento in
cui però si sono presentate le prime difficoltà nell’attuazione del programma o
ancora quando i risultati delle prime riforme sono tardati ad arrivare (è il
caso della defiscalizzazione delle ore straordinarie, non sufficiente al
momento ad arrestare la vertiginosa perdita del potere d’acquisto dei salari
medi), inevitabilmente il malcontento popolare ha finito per travolgere colui
che è identificato come il solo vertice dal quale promana l’iniziativa
politica. L’elenco dei Primi Ministri (ma anche sei singoli ministri)
utilizzati come parafulmini dai vari Presidenti della Repubblica è lunghissimo:
basti pensare a Debré per de Gaulle, a Chaban-Delmas per Pompidou, a Rocard per
Mitterrand, a Juppé e Raffarin per Chirac. L’attuale parafulmine, però, è il
Presidente stesso.
Quale la strategia di uscita dall’impasse? La versione dell’Eliseo,
per altro rilanciata dallo stesso Presidente in un’intervista di martedì 26
febbraio 2008 al quotidiano «Le Parisien» (che per l’occasione ha selezionato come
intervistatori un parterre di lettori al posto dei giornalisti professionisti)
è che cinque anni sono lunghi e le riforme avviate sono così traumatiche per il
Paese da determinare un fisiologico choc di sfiducia. Sul medio lungo periodo
il Presidente risalirà nei sondaggi e per altro non sono mancati esempi di
inizi difficili poi tramutatisi in grandi successi. I casi più citati sono
l’avvio del cancellierato di Schroder e quello del primo mandato elettorale di
Clinton. In realtà, per lo meno da dicembre 2007, alcune teste pensanti
dell’Eliseo stanno analizzando la situazione, traendone due importanti
conclusioni.
L’iper-attivismo, la vita privata eccessivamente
mediatizzata, la desacralizzazione della funzione presidenziale e la sua eccessiva
personalizzazione appartengono all’immagine di Sarkozy candidato durante la
campagna elettorale. Sarkozy eletto essenzialmente per il suo attivismo e la
sua capacità di rompere con la stasi precedente ha fino ad oggi concepito il
suo ruolo come la semplice prosecuzione della sua campagna elettorale. Sembra
giunto il momento di vestire i panni del Presidente in carica. Questo significa
rinunciare a riformare in profondità il sistema economico-sociale francese?
Assolutamente no, e questa è la seconda considerazione elaborata dai più
stretti collaboratori di Sarkozy. Il Presidente, quando riforma, è seguito e
sostenuto dall’opinione pubblica. Un esempio su tutti: il braccio di ferro sui
regimi speciali dell’autunno 2007 quando la maggioranza dei francesi si è
schierata dalla parte dell’Eliseo che aveva scelto di eliminare i privilegi
salariali e pensionistici di alcune categorie di lavoratori. Un dato simile
riguarda anche la contestata legge relativa alla sorveglianza dei recidivi: bocciata
dal Consiglio Costituzionale riguardo al suo carattere retroattivo, la norma è
invece apprezzata dall’80% dei cittadini secondo un sondaggio Ifop.
Insomma, da Parigi due indicazioni interessanti anche ad uso
della politica nazionale, senza naturalmente sottostimare le specificità del
sistema istituzionale transalpino. In primo luogo, i rischi insiti nell’interpretare
gli incarichi istituzionali come una campagna elettorale permanente. In secondo,
la dimostrazione che riformare, se si è stati eletti sull’onda di un programma
volontarista e di trasformazione sociale, paga anche nel breve periodo.