Quel che resta dell’establishment (e della politica italiana)
02 Giugno 2017
La discussione politica italiana è molto condizionata dagli interessi materiali di un ampio ceto politico per lo più allo sbando e da un sistema d’influenze che oggi ha essenzialmente punti di riferimento internazionali. Si passa così dal vociare un po’ da pollaio di chi vuol difendere il proprio posto di “lavoro”, al clima di minacce e ordini che dall’estero vengono trasmessi al nostro fatiscente establishment (quel che resta della finanza, un mondo delle imprese autorevole come il quotidiano che esprime: fatto salvo il meraviglioso Guido Gentili che è stato però chiamato a gestire un’operazione disperata, quotidiani sempre più in affanno) per conto delle varie cancellerie. Per cercare di capire che cosa può succedere e dunque gli spazi che può avere l’iniziativa di persone che intendono ancora dare un ruolo nazionale al proprio impegno politico, bisogna cercare di leggere i processi separandoli dagli interessi da pollaio e dai ricatti che condizionano tante prese di posizione che cercano di a loro volta di condizionare l’opinione pubblica.
La prima consapevolezza che va acquisita è che l’immagine che si dà dei processi politici in atto nel nostro continente è distorta: non è vero che è in atto un processo di stabilizzazione politica. La retorica su “dopo Brexit ed elezione di Trump, si è bloccata la deriva populista” non corrisponde alla tendenza di fondo in atto: né in Austria né in Olanda né in Spagna come si constata dopo il congresso dello Psoe si è determinato un vero equilibrio politico. Anche a Parigi Emmanuelle Macron dove dà segni di grande intraprendenza avendo alle sue spalle gli ambienti sia socialisti sia gollisti di uno Stato così solido come quello francese nonché un establishment finanziario possente, non paragonabile a quello italiano, che ormai tende a ridursi a Banca Intesa, le pur favorevoli previsioni elettorali per En Marche! (gli danno un 31% con un 17 ai gollisti e un 8 ai socialisti, e con il Fn al 18% e Jean-Luc Melanchon al 12, mentre il resto del voto andrebbe alle varie tendenze di protesta di destra e di sinistra) fa prevedere un’assemblea legislativa che magari sarà governabile, ma non avrà quella solidità che ai nostri cugini d’Oltralpe davano forti partiti di governo e di opposizione.
In realtà gli Stati dell’Unione, dove la politica ha ancora basi solide, sono quelli che si allontano dallo schema del Berliner consensus, quello che prevede i partiti della Nazione, lo svuotamento della politica, la prevalenza delle tecnocrazie, così a sinistra in Portogallo e in Grecia, e a destra (con tutte le critiche che si possono fare ad alcuni atteggiamenti illiberali) in Polonia e Ungheria. In realtà la scelta del Berliner consensus funziona solo in Germania dove è consolidata dal ruolo egemonistico che lo Stato tedesco ha sull’Unione.
L’Italia è il luogo dove questa tendenza di neutralizzazione della politica (e dunque del circuito sovranità popolare-nazionale) si è spinta più avanti anche perché il nostro Stato è entrato in una crisi strutturale con la fine di quella Guerra fredda che ne garantiva l’impalcatura (un sistema istituzionale che funzionava innanzitutto come Stato dei partiti); a questa situazione si è risposto con un rozzo bipolarismo che grazie alle alternanze di governo ha almeno garantito un buon rapporto tra cittadini e istituzioni della sovranità popolare, ma ha determinato un’ampia subalternità alle influenze internazionali come si è constatato nella gestione delle nostre privatizzazioni, del Trattato di Maastricht e del decollo dell’euro, fino a diventare dopo la crisi finanziaria del 2008 e quella da debito sovrano del 2010, dopo i sorrisini di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, un vero commissariamento della politica italiana con quattro presidenti del Consiglio senza più un efficace mandato da voto popolare. E questa deriva ha provocato il crescere di una protesta senza proposta anomala in Europa dove i movimenti di protesta hanno sempre radici di destra o di sinistra, preparata peraltro da una campagna contro “la casta dei politici” promossa sin dal 2007 dalla Confindustria montezemoliana e dal Corriere della Sera mielista, un esempio da manuale di sovversivismo delle classi dominanti.
Tutti i voti espressi dopo l’operazione commissariamento del 2011, sono segnati da questa situazione: così il voto del 2013 con l’esplosione grillina, così le europee con un exploit renziano bilanciato dall’esplosione dell’astensionismo, così il referendum del 4 dicembre, così i voti di città decisive come Roma e ancor più Torino. Con tutto il peso espresso di quel che resta dell’establishment, con tutte le ragionevoli preoccupazioni sulla governabilità, con tutto il sistema delle influenze internazionali l’area pro Berliner consensus non supera oggi il 40 per cento (mettendo insieme la sinistra e un centrodestra responsabile) mentre l’opposizione a questa soluzione è almeno al 50-54 per cento. E ciò è ancor più vero rispetto alle elezioni del 2013 ed europee quando il sistema di influenze internazionali vedeva in Italia una parziale convergenza (anche se gli obamiani poi aiutarono a far fuori un Enrico Letta troppo schiacciato su Bruxelles e puntarono su Matteo Renzi) di Washington con Berlino e Parigi, mentre oggi il fronte americano vede solo l’ala George Soros (legato a Carlo De Benedetti) pro Berliner consensus mentre quel che resta dell’obamismo (a partire dalla potente lobby del nuovo mondo tecnologico) sta con Renzi (e contro i tedeschi) e la grande finanza a partire da Goldman Sachs (per non parlare di JPMorgan) vede con fastidio l’egemonismo berlinese.
In effetti l’unico sistema di influenze ancora attivo in Italia è quello francese (d’altra parte solo Mario Monti sta ancora apertamente con i tedeschi non capendo che schierarsi con Berlino è come appoggiare un partito boero in Sud Africa dopo il crollo dell’apartheid), un mondo quello parigino che ha un grande rappresentante commerciale come Romano Prodi (ma in quest’area c’è anche Enrico Letta) e che alla fine converge con l’unica cosa che resta in piedi dell’establishment italiano cioè Banca Intesa nelle sue diverse articolazioni innanzi tutto bazoliane (l’avvocato bresciano è il vero genio di questo mondo), guzzettiane, messinianane e miccheiane, un mondo che dà colpi pesanti a Renzi (vedi libro debortoliano), cerca un varco moderato (si parla anche di una candidatura Beppe Sala) o radicale (vedi Giuliano Pisapia non per nulla sponsorizzato da Massimo Mucchetti), e (naturalmente) finirà per “assicurarsi” anche con il centrodestra. Se questa è la situazione bisognerebbe evitare quel che diventerà un’inevitabile deriva kaczyńskiana dell’Italia (il governo che si annuncia Piercamillo Davigo-Luigi Zingales). Costruendo un centrodestra articolato sulla sua ala moderata berlusconiana e su quella radicale salviniana. Non è semplicissimo, ma il resto è impossibile. Se Forza Italia lascerà ancora intendere che farà un governo con Renzi finirà sotto il 10 per cento.