Renzi va avanti: zero aperture alla sinistra, zero dibattito sui suoi fallimenti
19 Febbraio 2017
Renzi va avanti con il suo stile di sempre, quello dell’audacia, che è altra cosa dal coraggio, perché è dissociata dal senso di responsabilità (a cui lo ha severamente, ma inutilmente, richiamato Cuperlo). Un giocatore di poker, deciso a considerare la scissione come un bluff da andare a vedere, e non come una frattura che in realtà si è già consumata nel suo elettorato, e ora investe anche il gruppo dirigente. Perché il punto cruciale non è il “gioco di potere” denunciato da qualche opinionista sdraiato sull’amaca, ma esattamente il contrario: l’allontanamento di elettori e iscritti dal partito renziano, la delusione di fronte a tante aspettative suscitate all’inizio, la bruciante serie di sconfitte di cui anche in questa assemblea non si è parlato.
Il dibattito, hanno detto in molti, è stato alto. Forse, ma ancora una volta si è esorcizzato il fantasma che Renzi teme più di tutti, l’analisi dei suoi fallimenti, di un progetto politico che si è rivelato evanescente e di un metodo di governo che si è rivelato inconcludente. Le idee di Renzi, non sbagliate, erano sostanzialmente due. La prima: erodere consensi al centro, e magari anche a destra; ma da quell’area non è venuto nemmeno un voto. Il leader toscano non è stato “riconosciuto” dal popolo di centrodestra, che lo ha osservato con attenzione e all’inizio anche con simpatia, ma alla fine lo ha giudicato un corpo estraneo. La seconda: tuffarsi nel cosiddetto populismo, utilizzando i temi anticasta; ma anche qui, risultati zero. Come giustamente gli ha fatto notare D’Alema durante la campagna referendaria, non c’è appartenenza alla “casta” più piena ed evidente di chi è al governo, e ha il potere. Il risultato di questo tentativo di scimmiottare i grillini è servito soltanto a regalare spazio e vittorie ai 5 stelle, avvalorando i loro argomenti.
L’Italia non esce dalla crisi, ha un contenzioso aperto con l’Europa, il debito pubblico è salito e le tasse non sono scese, gli sbarchi dei migranti aumentano, la politica estera ha puntato sui perdenti, le riforme sono state bocciate dalla Consulta, dagli elettori o dalla magistratura. Di questo, però, l’assemblea del Partito Democratico non ha parlato, facendo alla fine un grande favore al segretario. Tutta l’attenzione è puntata su scissione-sì, scissione-no, su un dramma interno che si trascina da tempo e ha avuto un’accelerazione con la prospettiva del tana-libera-tutti del proporzionale. Renzi è stato come sempre liquidatorio, a lui serve andare velocemente al congresso e alle elezioni per evitare un bilancio serio della sua gestione del paese e del partito, e garantirsi la sopravvivenza. L’accorato appello di Franceschini non ha offerto reali appigli alla sinistra, e affermare che dopo la scissione sarà più difficile allearsi è un’arma spuntata: scissioni e contrapposizioni non hanno mai impedito alleanze successive, quando sul tavolo c’è la possibilità di vincere o governare.
La sinistra nei fatti è già fuori: il partito costruito da Renzi, con il nuovo statuto, non solo non è contendibile (e quindi chi volesse sfidare il segretario dimissionario al congresso andrebbe incontro a una bruciante sconfitta) ma è clamorosamente ostile ai “diversi” della minoranza. Si è visto anche oggi, mentre un pacatissimo Epifani parlava davanti a una platea che Orfini faticava a tenere buona, e in cui l’astio e l’insofferenza erano evidenti. La palla passa ora alla minoranza, e soprattutto a Emiliano, l’uomo più preoccupante per Renzi, su cui si sono esercitate pressioni per staccarlo da Bersani &co. Emiliano ha potenzialità e caratteristiche che il segretario capisce bene e teme. Non appartiene alla vecchia dirigenza postcomunista, non è etichettabile, spariglia i giochi, e in più è un difensore della legalità (applauditissimo ieri il suo passaggio sulla lotta alla mafia) e ha doti naturali di leader. Si vedrà presto. Intanto Padoan aspetta con tremore la sentenza europea, e Gentiloni quella sulla durata del suo governo.
Ultimora. Emiliano sa sparigliare, avevamo detto. E infatti subito ha spiazzato l’assemblea, intervenendo e gettando nuovamente la palla nel campo renziarno: noi (minoranza) siamo disposti a un passo indietro, non vogliamo la scissione, ma tu, caro Renzi, che garanzie ci dai? Assicuraci che il congresso sia effettivamente aperto a una dialettica vera, assicuraci condizioni di parità, insomma fai in modo che la competizione per la segreteria sia autentica, e noi restiamo. A questo punto tocca a Renzi rispondere, assumendosi la responsabilità di una eventuale rottura, oppure quella (per lui forse più fastidiosa) di lasciare che Emiliano scorrazzi nel partito liberamente aggregando consensi in vista del congresso.
Ma Renzi sceglie di non rispondere, facendo cadere la possibile mediazione della conferenza programmatica e lasciando in silenzio il Parco dei Principi, dopo aver dato le dimissioni. Orfini quindi ha chiuso l’assemblea dichiarando che è ufficialmente indetto il congresso. Poco dopo è uscita una nota congiunta di Rossi, Emiliano e Speranza: «Anche oggi c’è stato da parte nostra un ennesimo generoso tentativo unitario. È purtroppo caduto nel nulla. Abbiamo atteso invano un’assunzione delle questioni politiche che erano state poste, non solo da noi, ma anche in altri interventi di esponenti della maggioranza del partito. La replica finale non è neanche stata fatta. È ormai chiaro che è Renzi ad aver scelto la strada della scissione assumendosi così una responsabilità gravissima».