Afghanistan: gli italiani fanno la guerra e il Prc minaccia il governo
24 Settembre 2007
Gennaro Migliore ha chiarito in Parlamento – sia pure con tatto – il senso di quanto è accaduto realmente in Afghanistan, là dove i nostri due militari erano stati palesemente impegnati in azione di vera e propria guerra – probabilmente per impedire rifornimenti di armi iraniane ai Talebani – e non in azione “di copertura” e tantomeno umanitaria. Lo strano, stranissimo rifiuto di Arturo Parisi di comunicarne i nomi al Parlamento conferma questo quadro. Non si tratta di agenti del Sismi, ma di membri dell’esercito ormai fuori dal teatro operativo. Non dichiararne le generalità ha un significato solo: la loro azione non era verbalizzata nei ruolini. Il segreto di Stato copre l’azione, dunque ed è invocato -questo è gravissimo – solo e unicamente perché l’attuale maggioranza di governo non può tollerare di sapere quel che autorevoli testimoni sanno e dicono riservatamente: in Afghanistan nostri uomini compiono azioni di commando, combattono in pieno la guerra, e questa è la ragione per cui gli alleati sopportano le bizze verbali del nostro governo “pacifista”. Migliore è stato dunque inequivocabile: “Non condivido l’idea che vi possano essere dei ‘caveat’ diversi per il nostro esercito. Perché se si modificasse la regola d’ingaggio per i nostri militari e si associassero alle operazioni belliche, i rischi a cui andrebbero incontro gli italiani sarebbero ancora maggiori”. Con ottime doti da equilibrista, dunque, il capogruppo di Prc ha avvisato il governo che sa tutto e che oggi tace, ma solo perché l’azione è tutto sommato finita bene, ma che non tollererà altri episodi simili.
Ma il punto politico della giornata è ancora più grave. Mentre infatti il comando Isaf preparava l’azione di liberazione armata degli ostaggi – preparazione ovviamente iniziata almeno domenica mattina – il nostro ministro degli Esteri annunciava domenica sera, urbi et orbi, di avere chiesto formalmente e direttamente, la mediazione di Manoucher Mottaki, ministro degli esteri dell’Iran.
D’Alema scrive sempre lo stesso libro e impiega lo stesso schema. Per Mastrogiacomo si appoggiò – sciaguratamente – su un aperto estimatore dei Talebani rapitori e un avversario politico aperto dell’azione Isaf. Per i due soldati prigionieri, si è rivolto al padrino dichiarato dei Talebani rapitori, al rappresentante del paese che fornisce loro le armi, proprio in quella zona, come rivelò il Washington Post il 6 settembre e hanno confermato le agenzie dello stesso 22 settembre. Giorno in cui sono stati intercettate armi iraniane -la coincidenza con l’azione in cui sono stati catturati gli italiani non è, ovviamente, casuale – fornite proprio ai Talebani della provincia di Farah, tra queste, mine antiuomo iraniane usate proprio oggi nell’attentato mortale contro i militari spagnoli.
Rivolgersi pubblicamente – non riservatamente, questo è il punto – a Mottaki, significa essere pronti a pagare il prezzo politico che il padrino dei Talebani avrebbe potuto esigere una volta ottenuto il risultato. Così è andata con Gino strada. Così D’Alema ha scelto che andasse anche in questo caso, pronto a pagare un prezzo politico e quindi, come ha già fatto più volte assieme a Romano Prodi, a incrinare la solidarietà europea e atlantica nell’azione contro l’Iran e i suoi programmi nucleari.
Ma mentre D’Alema tesseva la sua tela – al solito – è stato spiazzato da un comando Isaf che ormai ben conosce il trasformismo cinico del governo Prodi (pubblicamente criticato per la gestione del caso Mastrogiacomo) e che ha subito dato un taglio netto a tutte le disponibilità italiane, chiaramente espresse, di pagare riscatti di ogni tipo. Il tutto, mentre cresceva l’irritazione di Arturo Parisi nei confronti di D’Alema – il nostro ministro della Difesa è nettamente schierato, solidarmente con l’Isaf – che ha voluto farla trapelare – al solito – attraverso il Corriere della Sera (come già fece criticando apertamente la gestione del caso Mastrogiacomo).
Paradossalmente, per la prima volta, è stato applicato l’articolo 11 della Costituzione che, al ripudio la guerra – ma non in generale, come si dice, ma solo limitatamente a quella d’aggressione – subito dopo affianca una frase decisiva, che ne ribalta il senso, in situazioni quali l’Afghanistan e l’Iraq, aggiungendo che la Repubblica italiana “consente alle limitazioni di sovranità (…) necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”.
Dunque, il governo italiano ha compiuto una scelta limpida e coraggiosa, ma solo perché non ha deciso da solo, solo perché ha ceduto sovranità all’Isaf. Solo perché ha dato il suo assenso – dovuto – ad una decisione del comando militare americano.
Una lezione preziosa.