Maria Zambrano, conoscere l’uomo significa custodire il suo mistero
27 Febbraio 2011
Conoscere l’uomo è custodire il mistero. Un’aporia nel tempo presente, con il divino allontanato dall’uomo e dall’anima, relitto di una categoria non necessaria al moderno, rantolo al cospetto di una schizofrenia scientista che impone verità indissolute. Uno schiaffo al nichilismo d’oggi, con l’inconoscibile privato di significato perché disvelato, strappato dallo scrigno in cui si rafforza il legame tra l’essere e Dio, per la pretesa di tutto conoscere, di tutto manipolare, in una spirale di possesso che è diventata vortice di immane fatica e fredda disperazione.
Febbraio 1991, e sono vent’anni di vuoto. Una parte del misticismo occidentale si spegne a Madrid. E’ Maria Zambrano che se ne va, filosofa e poetessa sublime del chiaroscuro che si fa aurora presente, una vita a indagare, senza volerla svelare, l’essenza dell’essere ultimo e umano nel suo rapporto con la Storia, nel suo rapporto con il Soprannaturale, nel suo rapporto con l’Altro. Torna la mente al suo immane lavoro di ieri, che è testimonianza nell’oggi – da Chiari del bosco a Delirio e destino, da All’ombra del dio sconosciuto a Verso un sapere dell’anima – benché il “ben pensiero” abbia già provveduto a relegare nel dimenticatoio del subconscio intellettuale le sue parole e la sua poetica, come accade a chiunque si intesti l’onere archeologico-intellettivo di capire se esistano, al fondo, “cose” prima dei “nomi”.
Giova, allora, riannodare il filo con la sua opera più imponente e importante, densa e imperitura, L’uomo e il divino, uscita nel 1955 ma sempre fresca, che le Edizioni Lavoro ripropongono con un saggio introduttivo di Vincenzo Vitiello, e che rende onore a una delle menti femminili più brillanti del Novecento, assieme a Cristina Campo e Simone Weil. Un peregrinare tra boschi scoscesi e salite ardite, per solcare i tratti essenziali del rapporto tra l’umano e il divino, dalla nascita degli dèi greci al monoteismo cristiano, dalla risposta pagana al delirio del nichilismo del Nulla, stretti dall’ansia non già di dimostrare, quanto di scorgere il vertice dell’Uno che si fa luce nelle tenebre.
Attualità di un’analisi, che già in quegli anni di costruzione di un nuovo spirito identitario per l’Europa, appariva nella sua tragica e profetica crudezza. Un legame tra l’uomo e Dio che il primo ha tranciato, travolto dalla mendicità edipica travestitasi in regale apparenza e, quindi, in superomismo e pretesa di far senza. Un’intimità non più percepita come vitale e che oggi rende dunque “difficile rivivere la vita in cui la credenza era non formula cristallizzata, ma alito vivente che in forme molteplici e indefinibili, inafferrabili dalla ragione, innalzava la vita umana, l’accendeva o l’estingueva, conducendola per luoghi segreti”.
Con Vico ed Hegel, Zambrano ha il “problema della nascita dell’autocoscienza spirituale, storica” – come ricorda Vitiello nella sua introduzione – ma li supera e in un certo modo li trascende entrambi, perché ella “non va in cerca dell’argomentazione impossibile che sciolga il mistero di quella nascita, spiegandolo; accetta, per contro, il mistero, come tale”. E allora è agevole capire anche il linguaggio di lei, così lontano dalle asperità del saggio logico e raziocinante, così prossimo all’opera poetica che accarezza ed emotivamente vede e narra. Proprio di chi ha fatto della propria vita un’odissea fisica e intellettuale. Nata a Vélez-Malaga nel 1904, dopo aver compiuto gli studi filosofici a Madrid con Ortega y Gasset, di cui fu allieva, e aver lottato politicamente a fianco delle forze repubblicane spagnole, Zambrano inizia, infatti, nel 1939 un esilio, che la rimbalzerà più volte tra le due sponde dell’Oceano: Parigi, L’Avana, New York e Roma, dove conoscerà Gadda, Campo, Zolla, Moravia. Per trovare pace con il ritorno all’Itaca madrilena, dove morirà nel 1991.
Un viaggio forzato che fu allo stesso tempo manifestazione di senso e ricerca “à rebours” delle radici del Sacro, che si innervano nella Notte e nel non-luogo dell’oscurità da cui emerge e nasce il Divino, e con esso l’uomo. Per giungere, in contrasto con l’ateismo che è la “risposta della desolazione umana” e “che sente l’indifferenza nella divinità”, alla religione della rivelazione. Al Calvario che nel suo paradosso di disperazione apre la strada dell’accessibilità e della presenza attraverso l’abbandono del suo Figlio. Il Dio che veramente muore per e tra gli uomini. Il “Dio dell’amore il cui mistero supremo è la Passione” salvifica e redentrice. Il “Dio vivo, colui che arde nel roveto dell’eterna creazione”, e dopo il quale nulla sarà più come prima.