Gli Usa combattono la mafia ma l’hanno resa un mito cinematografico
06 Febbraio 2011
di Luca Negri
E’ stata la più grande operazione messa in atto dalla polizia federale statunitense contro il crimine organizzato. La maxi-retata della scorsa settimana contro Cosa Nostra di New York ha quasi rinverdito il mito dell’Fbi guidato da J. Edgard Hoover; quello che negli anni Trenta mise fuori combattimento le organizzazioni di Pretty Boy Floyd, Baby Face Nelson e del temibile John Dillinger.
Più di cento arresti effettuati nella Grande Mela, in New Jersey, New England e Sicilia. Ognuna delle famigerate e leggendarie cinque famiglie che signoreggiano da decenni sulla malavita italo-americana (Gambino, Lucchese, Genovese, Bonanno e Colombo) è stata duramente colpita.
I principali capi di accusa sono immaginabili: associazione mafiosa, omicidio, estorsione e gioco d’azzardo. Da copione anche gli arresti negli ambienti del sindacato (contiguità che divenne di pubblico dominio negli anni Cinquanta con la vicenda del sindacalista Jimmy Hoffa).
Forte di tale decapitazione della cupola dei Colombo e decimazione nell’esercito dei Gambino, il ministro della Giustizia Eric Holder ha dichiarato che l’impresa “distruggerà la mafia”. Tono sicuramente troppo ottimistico: non è un mistero che la mafia, espressione armata e spietata del capitalismo e contropotere di piccolo Stato dentro lo Stato, ha nel suo dna una particolare capacità di rigenerazione. Soprattutto da quando ha superato la fase primitiva fondata sul clan, sul legame di sangue e la parentela stretta. Senza contare la sua capacità di adattamento all’epoca dell’economia globalizzata e de-localizzata.
In ogni caso, che la mafia statunitense sia stata o meno messa in ginocchio, il suo perverso fascino e la sua epica sanguinaria fanno ormai parte del panorama culturale americano. La sua rappresentazione attraverso i media di massa ha contribuito a darle un posto rilevante nell’immaginario degli Usa, nel racconto del sogno, e dell’incubo, americano.
Ne consegue che l’immagine dell’italiano negli States è spesso ancora associata a lupara e faide come alla pizza e al mandolino. Sfugge a molti il semplice dato storico che quando i nostri compatrioti cominciarono ad emigrare massicciamente oltreoceano, nella seconda metà dell’Ottocento, non trovarono proprio terra vergine per quanto riguarda la criminalità. Lo ha ricordato qualche anno fa un bel film di Martin Scorsese, Gangs of New York: i nativi protestanti e i nuovi arrivati cattolici irlandesi avevano già solidi eserciti che gestivano l’economia più o meno sommersa delle metropoli, in un intreccio di religione, politica e violenza. Gli italiani, o meglio i mafiosi siciliani e i camorristi originari della Campania si inserirono come poterono ed anche loro conquistarono potere aiutando il proprio gruppo etnico e colmando le lacune della giustizia ufficiale ed istituzionale. Ovviamente con richiesta implicita di alti interessi a carico dei beneficiati.
Il mito mediatico della mafia italiana in America esplose nel 1969, anno di pubblicazione de Il Padrino, che divenne un best-seller da milioni di copie. Ingiustamente sottovalutato perché classificato come mera letteratura di consumo, il capolavoro di Mario Puzo, nativo di Little Italy ma originario dell’Irpinia, ha tracce pulp nella rappresentazione della violenza e nell’uso del sesso, ma è un romanzo che tocca i grandi temi fondamentali (destino, libero arbitro, potere, morte) raccontando le vicende della famiglia Corleone nel secondo dopoguerra. C’era già tutto in quel libro, compreso il tramonto della mafia vecchio stampo ancora legata alla famiglia e ad un senso dell’onore ormai seppellito e l’approdo al riciclaggio nell’economia legale. Il patriarca, Don Vito, saggio e cinico come un valido uomo di Stato, era perfino contrario ad espandersi nel nuovo business dei narcotici. Era affezionato a vecchi affari come contrabbando e scommesse clandestine. Anche se si rivelava abbastanza sveglio da capire al volo le opportunità d’investimento nell’industria del sogno hollywoodiana.
Pochi anni dopo l’uscita del romanzo Francis Ford Coppola ne ricavò un film con Marlon Brando nel ruolo forse più famoso della sua carriera, quello di Don Vito Corleone. Ne nacque una nuova icona cinematografica. Il successo fu tale che seguirono altri due episodi, o meglio atti del dramma.
Ma non solo Coppola ha portato la mafia italiana sul grande schermo. Un altro illustre regista italo-americano, Martin Scorsese, ha contribuito al mito maledetto con Main streets negli anni Settanta e con il bellissimo Goodfellas del 1990. Invece dei Don e dei loro stretti collaboratori o famigliari ai vertici delle organizzazioni, ha raccontato i livelli inferiori della gerarchia, fino alla manovalanza omicida.
Anche Brian De Palma ha messo in scena uno smisurato Al Capone, interpretato da Robert De Niro, ne Gli intoccabili del 1987. Sembrava proprio lo stesso bullo napoletano padrone di Chicago così disprezzato dai capifamiglia siciliani nel libro di Puzo a causa della sua crudeltà e dell’ostentazione del lusso conquistato con le cattive maniere.
L’ultima infatuazione prima americana e poi mondiale per la malavita di origine italiana è stata televisiva: la serie The Sopranos andata in onda dal 1999 al 2007. Vita quotidiana di una famiglia camorrista d’origine avellinese trapiantata nel New Jersey. Era proprio la quotidianità fatta di attacchi di panico e sedute d’analisi del boss e rapporti non solo con “colleghi” ed Fbi ma anche con moglie e figli la chiave del successo della serie. Secondo il New York Times è stata “l’opera della cultura pop più importante dell’ultimo quarto di secolo”. Ora i tanti appassionati possono solo godersi le repliche o i dvd. Ma sicuramente drizzeranno le orecchie alla notizia che forse si girerà un film sulla vita di John Gotti, il mafioso telegenico ed elegante che comandò i Gambino dalla metà degli anni Ottanta alla morte per cancro del 2002. Ebbene, hanno avvistato in un ristorante di Los Angeles un noto produttore allo stesso tavolo con il figlio di Gotti e John Travolta.
Nel caso la mafia risultasse annientata come promesso dal ministro della Giustizia Usa, il mito continuerà al cinema.