Il multiculturalismo è fallito ma il cinema d’autore non se ne è accorto
06 Febbraio 2011
Il multiculturalismo si è rivelato un completo fallimento. Finalmente un politico europeo, con le spalle sulla testa, ha il coraggio di aprire una seria crepa nel nuovo e granitico muro di Berlino, messo in piedi dal “politicamente corretto” progressista. L’Europa, a parere del premier inglese David Cameron, deve svegliarsi rapidamente e prendere coscienza innanzitutto della più insidiosa delle attuali ideologie, l’estremismo islamico. Il multiculturalismo ha steso un tappeto rosso a culture diverse, basate sull’idea di una vita separata, espressione non di rado di comportamenti contrari a quelli, laici e religiosi, fondanti dell’Occidente.
Mentre politici come Cameron prendono coscienza del fallimento del mito “multiculturalista”, gli intellettuali battono la strada opposta. Prendiamo il film appena uscito del regista Alejandro González Iñárritu “Biutiful”. Iñárritu si è imposto grazie ad opere di grande forza visiva ed emotiva: “Amores perros” (2000), “21 grammi” (2003) e “Babel” (2006). “Biutiful” è stato presentato in concorso alla scorsa edizione del Festival di Cannes, dove il protagonista Javier Bardem ha vinto il premio per la migliore interpretazione. Inoltre il film di Iñárritu è nella cinquina finale per l’assegnazione dell’Oscar al miglior film straniero, con eccellenti possibilità di portarsi a casa la statuetta, grazie alla magnetica presenza di Bardem. “Amores perros” rivelò il talento del regista nato a Città del Messico nel 1963. La sua macchina da presa seppe insinuarsi nelle discariche umane messicane, dominate da gang violentissime, povertà estrema, impossibilità di sfuggire un destino implacabile.Il film è riuscito a mettere tutti d’accordo: critica e pubblico internazionali. Soprattutto le giovani generazioni hanno eletto “Amores perros” quale opera di riferimento. Per rendersi conto di ciò basta soffermarsi sui commenti presenti nei social network dedicati al cinema più frequentati.
Un successo di tale portata, per un film di produzione modesta, non poteva che schiudere le porte di Hollywood ad Iñárritu. Così è stato. “21 grammi” e “Babel” sono stati realizzati negli Stati Uniti. Per il primo il regista messicano ha potuto contare su un gruppo di attori “autoriali” di tutto rispetto: Sean Penn, Naomi Watts, Benicio Del Toro, Charlotte Gainsbourg. Nel secondo addirittura ha avuto a disposizione un divo quasi impossibile da scritturare, Brad Pitt, affiancato da Cate Blanchett.
Ma dall’Europa, culla del mortifero “cinema d’autore”, doveva arrivare la vera consacrazione. Ed eccola puntuale con “Biutiful”. Siamo a Barcellona. La Barcellona dove ogni tanto si vede la maestosità della Sagrada Família ideata da Antoni Gaudí. Ma in questo film nichilista non c’è spazio per il bello. Scordatevi le “ramblas”, la spiaggia, la dolce vita barcellonese. Clima ideale, cibo buono, aperitivi e vino. Amicizia e sensualità. Scordatevela la città ideale per gli artisti immortalata da Wood Allen in “Vicky Cristina Barcelona” (2008: anche in questo film c’è Javier Bardem, ma è il fratello lontano – anzi il fratello mai visto – del Bardem di “Biutiful”). La Barcellona di Iñárritu è la cloaca dove si congiungono tutti i mali che stanno divorando come un cancro l’Occidente.
Bardem ha i panni dimessi e sporchi di Uxbal, padre di due bei figli, Ana e Mateo. Li ama teneramente, anche se si capisce che ci vorrebbe una donna a rassettare la casa sporca e fredda dove i tre vivono, o a preparare una cena degna di questo nome, soprattutto se a tavola ci sono bambini. La donna ci potrebbe anche essere. Anzi, ogni tanto si fa vedere la moglie, Marambra. Donna fragile, in difficoltà psicologiche, facilmente dedita all’alcol, all’afasia e al sesso disinvolto. Che mestiere esercita Uxbal? Vive sulle spalle degli extra-comunitari: manodopera clandestina africana (senegalese) e cinese. In ogni film di Iñárritu la morte regna sovrana (alcuni critici indicano una “trilogia della morte”, aggiornabile in “tetralogia”). La morte plana subito su Uxbal, come un avvoltoio: il cancro alla prostata in stato sin troppo avanzato, gli lascia davvero poco da vivere.
Tutto è morte in “Biutiful”. E schifo. Strade sporche. Case sporche. Vite sporche. Anime sporche. Violenza, sopraffazione, crudeltà. È così mal ridotta la città santa e modernista che sognava Antonio Gaudí? È così sprofondato nel nulla e nelle metastasi diffuse il cuore più giovane e palpitante dell’Occidente?
Dalla Spagna alla fine degli anni Settanta del secolo passato arrivò la “Movida”, i cui epicentri erano Madrid e Barcellona. Il regista pop ed artista totale Pedro Almodóvar seppe rendere visivo questo caleidoscopio di esuberanza, vitalismo, travestitismo, cannibalismo e trasgressione. Sulle macerie della Spagna franchista andava in scena la morte della modernità europea. E dalle sue ceneri si ergeva possente lo spirito del tempo postmodernista, gravido di mitologia ottimista. Ottimismo smagliante e “multiculturalista”. Invece il multiculturalismo ha fallito, come l’ingenuo ottimismo postmodernista. Invece di porsi domande serie sui limiti e gli errori del multiculturalismo, Iñárritu mette tutto nel conto nell’avidità degli uomini. I forti sfruttano i deboli. Un poliziotto corrotto racconta a Uxbal una storia: il guardiano di una tigre per giorni e giorni gli ha dato da mangiare. Erano amici. Sembravano amici. Poi un giorno l’animale, inspiegabilmente, l’ha assaltato, tagliandogli la faccia in due e uccidendolo. La tigre nella sua storia sono gli africani (potrebbero anche essere i cinesi, o gli slavi, o gli indiani), e la morale è chiara: sin che possiamo abbattiamoli prima che questi animali feroci ci facciano del male. Il vero nemico dell’Occidente sono gli intellettuali espressione della postmodernità nichilista come il messicano Iñárritu.