“Jihad training camp”, così i musulmani si radicalizzano nelle carceri europee
20 Settembre 2017
Qualcuno parla della più grandi prigioni d’Europa come di “Università del terrorismo”: ci entrano delinquenti qualsiasi, musulmani e non, chiamati a scontare una pena, ne escono professionisti del terrore carichi di odio. Succede soprattutto in paesi – come Francia, Gran Bretagna e Germania – con un’elevata percentuale di popolazione islamica e riguarda case circondariali a cui, spesso, riconducono le indagini sugli attentati terroristici degli ultimi anni.
Difficile immaginare cosa avviene esattamente oltre le sbarre, tra detenuti arrabbiati e spaventati, magari in cerca di una protezione per sopravvivere alla violenza durante la detenzione. Il racconto di Jamal (nome di fantasia), 27enne musulmano recluso per frode bancaria nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, a Londra, fornisce dettagli che aiutano a capire. “Ho avuto sin dall’inizio l’impressione che la prigione non fosse governata dalle guardie ma da un terribile gruppo di islamici radicali, “Akhi”, di cui una ventina trattati come delle celebrità”, racconta a un magazine inglese appena due settimane dopo la scarcerazione. “Mi hanno offerto sigarette, cibo e ogni supporto – dice -. Il passo successivo è stato dirci che eravamo finiti in cella per colpa del sistema diabolico, che i non-musulmani stavano uccidendo le nostre donne e i nostri bambini, e che per questo eravamo chiamati a diventare soldati di pace”.
Il ragazzo dice di aver visto picchiare da 25 prigionieri un detenuto di religione cristiana, che hanno dovuto convertirsi all’Islam anche i due uomini con cui divideva la cella. “Ho visto gente che si radicalizzava ovunque. Il cambiamento è subito evidente perché si arrotolano i pantaloni al ginocchio, si fanno crescere la barba, cominciano a chiamare tutti “fratello” e diventano aggressivi”. Dell’agghiacciante descrizione di quello che, a suo dire, è il più grande “jihad training camp” d’Inghilterra fa parte anche il ricordo dei festeggiamenti per l’attentato a Charlie Hebdo.
Prigioni, dunque, ad altissima tensione, luoghi in cui il racket della protezione avvicina all’Islam radicale soprattutto i giovani, nuove reclute a cui l’indottrinamento ha insegnato la lucida follia necessaria a uccidere appena fuori dal carcere. Le autorità penitenziali e governative conoscono bene il problema, di cui fa parte anche la paura delle guardie carcerarie che, purtroppo, spesso fanno finta di non vedere. Molti temono addirittura di essere accusati di usare trattamenti discriminatori nei confronti dei musulmani. E’ di qualche giorno fa la notizia di un imam, vicino al gruppo estremista dei Fratelli Musulmani, segnalato al ministro della giustizia dello stato di Hessen, in Germania, per aver pagato visite extra al carcere, oltre a quelle settimanalmente consentite, che gli avrebbero consentito di intensificare la sua indottrinazione fanatica.
Di tentativi volti a limitare, seppure marginalmente, questo pericolosissimo fenomeno ce ne sono. Sembra che il Federal Criminal Police Office tedesco (BKA) abbia recentemente messo a punto un documento per aiutare la polizia penitenziaria a riconoscere i segnali di sospetta radicalizzazione tra detenuti, come ad esempio la scelta di un nome diverso rispetto a quello di origine, il cambiamento delle abitudini alimentari, la tipologia delle conversazioni. Sempre in Germania, il governo ha sperimentato nel carcere minorile di Wiesbaden (300 detenuti, tra cui molti combattenti Isis di ritorno dalla Siria) un progetto per l’insegnamento del Corano attraverso la recitazione e il teatro.
Difficile pensare che tutto questo possa bastare a svuotare cuori e teste dall’odio a cui sono stati abituati soprattutto durante la guerra, dal fanatismo che ha riempito le loro lacune di conoscenza, da quell’attitudine alla violenza con cui pensano di poter vincere la loro battaglia.