L’Islam radicale conquista anche la Svizzera
19 Ottobre 2017
La settimana scorsa è stato fermato a Chiasso, in Svizzera, Anouar Hanachi, uno dei fratelli di Ahmed, l’attentatore di Marsiglia del 1° ottobre. L’uomo è stato fermato presso un centro richiedenti asilo appena dopo tre giorni l’arresto, avvenuto a Ferrara, di Anis, il terzo dei fratelli Hanachi. Il fatto che Anouar stesse cercando, insieme alla moglie, di entrare nel Canton Ticino, conferma quanto sulla stampa locale si legge già da un po’, ovvero che l’Islam radicale è approdato anche in Svizzera.
Il problema, purtroppo, non è in fase embrionale, ma già abbastanza strutturato. È di qualche settimana fa la notizia che la polizia federale stesse dando la caccia al leader del Consiglio Centrale Islamico svizzero, Nicolas Blancho, e ad altri due uomini dell’associazione, Naim Cherni e Abdel Azziz Qaasim Illi, accusati di aver violato la legge che bandisce i gruppi radicali e la propaganda terroristica. Secondo il procuratore generale, Michael Lauber, i casi d’indagine riconducibili alla Jihad nello stato elvetico sarebbero una sessantina.
Alle segnalazioni della polizia federale, si aggiungono poi le notizie dei giornali locali che, da qualche tempo, segnalano la tendenza estremista dei discorsi tenuti dai capi delle comunità musulmane nelle moschee. L’ultimo caso è stato registrato a Bienna, a nord di Berna, dove l’imam Abu Ramadan ha pubblicamente chiesto ad Allah di distruggere i nemici dell’Islam, cristiani, ebrei e induisti, e ammonito come “dannati fino al giorno del giudizio” chiunque diventi loro amico.
Sembra che le autorità locali abbiano a lungo fatto finta di non vedere e non sentire quello che da più parti veniva additato come un pericolo. Anzi, proprio come succede in altri Paesi d’Europa, pare che si siano piuttosto spese per dare della rigorosissima Svizzera, lo stessa che nel 2014 ha approvato il referendum che introduce un tetto massimo di lavoratori transfrontalieri, l’immagine di una nazione che combatte l’islamofobia e protegge le minoranze. Eppure nel 2009 il popolo svizzero si sia già espresso sulla necessità di contenere la pratica della religione islamica entro determinati “paletti” votando “sì” al referendum che vietava la costruzione dei minareti nelle moschee.
Qualche tentativo di correre ai ripari c’è. Con l’inizio del nuovo anno accademico, l’Università di Ginevra ha per esempio creato una piattaforma per un “islam illuminato”, ovvero, come ha spiegato il rettore Yves Flückiger, un pacchetto di corsi (dal valore di 10 mila franchi a partecipante) di francese, filosofia politica, diritti dell’uomo e etica, pensato per agevolare l’integrazione degli imam nella cultura svizzera. Anche il Parlamento si muove sul fronte della prevenzione dell’Islam radicale lavorando a una legge che impone agli imam di predicare esclusivamente nella lingua nazionale e proibisce finanziamenti esteri alle moschee.
In attesa di una nuova legge, si potrebbe, forse, fare in modo che vengano pienamente applicate quelle già esistenti. L’imam di Bienna, di cui abbiamo parlato, è arrivato in Svizzera nel 1988 dalla Libia come richiedente asilo e qui vive da vent’anni. Sembra però che abbia spesso fatto ritorno a casa, facendo tappa anche in Arabia Saudita e in altri Paesi musulmani. Ciò sarebbe bastato, per legge, a fargli revocare la richiesta di asilo e rimandarlo definitivamente da dove è venuto. Perché mai nessuno è intervenuto a riguardo?