Se quella cinese non è (ancora) un’economia di mercato
05 Dicembre 2017
Non è un’insinuazione, è la realtà: quella cinese non è (ancora?) un’economia di mercato. “Planned economies attempt to control not only the commanding heights’ of industries, but also the moement of their peolple” le economie pianificate non controllano solo i vertici delle industrie ma anche i movimenti della gente scrive l’1 dicembre la corrispondete del Financial Times da Pechino Lucy Hornby e spiega poi come, nonostante lo sviluppo di forze di mercato sia ancora consistente, il dirigismo cinese si esercita anche sui movimenti dei lavoratori non solo sull’organizzazione della produzione. Federico Rampini quando scrive sulla Repubblica dell’1 dicembre come il rifiuto di Donald Trump di non riconoscere quella cinese come un’economia di mercato “non va interpretato necessariamente come una ritorsione a caldo per punire Xi Jinping che non ha saputo disciplinare il suo vassallo di Pyongyang” si esercita secondo l’abituale stile suo e del suo quotidiano, a dire una cosa vera (la Cina come parziale economia di mercato) e una insinuante (la posizione di Trump sarebbe forse determinata dalla questione nordocoreana), offuscando alla fine la realtà essenziale: Pechino non ha ancora scelto la via dell’economia di mercato e per qualche verso ha fatto passi indietro. Come bene spiega la Hornby.
Piccoli razzisti, talvolta pericolosamente violenti. Per ora sono un problema (non troppo grande) di ordine pubblico (ed etico), non politico. “La Procura di Como, guidata da Nicola Piacente, ha aperto un’indagine per violenza privata in relazione all’irruzione di 13 rappresentanti dell’associazione di estrema destra ‘Veneto Fronte Skinheads’ all’assemblea pubblica organizzata dagli aderenti alla rete ‘Como Senza Frontiere’, attivi nell’accoglienza ai migranti. Uno dei partecipanti ha effettuato delle riprese video che hanno consentito alla Digos di identificare quattro manifestanti e in queste ore si sta dando un nome e un cognome anche agli altri partecipanti al blitz”. Così un flash di Rai news online del 30 novembre. Gli skinheads che hanno contestato a Como un’associazione di volontariato che aiutava immigranti si collegano all’emergere di gruppi e gruppetti che da Ostia al Veneto ostentano simboli e slogan nazisti. In parte sono espressione di una voglia bacata di provocazione (al centro della nascita stessa degli skinheads) in parte raccolgono nuove paure e spinte xenofobe. Sono già annuncio di un vero pericolo fascista, un’”onda nera”? Così sulla Repubblica dell’1 dicembre sostengono sia Michele Serra infilandoci, secondo copione, dentro anche le responsabilità di Silvio Berlusconi: “Ha sdoganato Fini ben prima che Fini diventasse post-fascista (e lo ha fatto fuori quando già era post-fascista)” ed Ezio Mauro che annota “quanto fascismo disorganico, sciolto, quasi naturale è già ritornato a circolare nella società italiana”. In realtà il fascismo si distingue da altre tendenze reazionarie, razziste o autoritarie, e da paure popolari per la concorrenza di altri poveri come gli immigrati, o da una certa mancanza di senso civico di un popolo che a lungo non ha avuto uno Stato e poi ne ha avuto uno con basi sociali non sempre sufficientemente larghe, per essere “organico” a un disegno di presa dello Stato, per non essere un movimento “sciolto” ma unificato da un leader (duce), per non essere un fenomeno “naturale” ma ben organizzato in squadre. Insomma stiamo parlando di un fenomeno politico che per crescere ha avuto bisogno della guerra e in particolare di una di tipo civile. Finita la guerra civile europea (iniziata con la Prima guerra mondiale e terminata con lo scioglimento dell’Unione sovietica), dalla Spagna all’Italia è stato opportuno recuperare, con l’arrivo della pax post-sovietica, chi si era perso dietro a movimenti fascisti in disarmo. Sarebbe oggi dunque necessario uno sforzino di pensiero, anche dose minima, per contrastare giovinastri violenti, slogan insultanti, razzismo troppo diffuso nelle forme in cui oggi si manifesta. Naturalmente se ci cacceremo in un’altra situazione di sbandamento globale con annesse guerre e devastazioni, il fascismo potrebbe tornare attuale: ma al momento concentriamoci su quei fattori che possono determinare altre inaccettabili forme di violenza verbale e talvolta fisica, che però (e per ora) non costituiscono un reale pericolo fascista.
Quel legame tra mani nette e mani inette. “Ben poco ‘eversiva’ ma soprattutto inetta” Enrico Galli della Loggia sul Corriere della Sera del 26 novembre. Della Loggia argomenta con intelligenza sul fatto che una come Virginia Raggi sarà certamente una inetta ma non è una sovversiva. Più in generale spiega che se circa il 58% degli italiani ha assunto, con voto grillino o nuova astensione, un atteggiamento di protesta radicale, una parte rilevante della colpa non può essere che dei partiti di destra o sinistra che hanno dominato la scena politica, alternandosi al governo, nella cosiddetta Seconda repubblica. Molti argomenti della riflessione gallidellaloggiana sono convincenti, ma il centro del suo ragionamento è sbagliato. La protesta esplode quando la persecuzione giudiziaria a Silvio Berlusconi giunge al suo culmine, quando l’asse bruxellese-berlinese (con contorni di sorrisini sarkoziani) spinge a commissariare l’Italia (e qualche “scellerato” italiano co-sorride a questa ipotesi), quando s’intriga per avere un presidente del Consiglio (Mario Monti), senza una vera base elettorale e inetto –nella capacità di far politica- quasi quanto la Raggi, quando la Corte costituzionale priva l’Italia di una legge elettorale pur discutibile in alcuni suoi aspetti ma funzionante e sostanzialmente legittima, quando si fa un governo di unità nazionale e si caccia del senato il leader del secondo schieramento della nazione. E’ stato lo spingere la maggioranza del “popolo” a sentirsi tagliata fuori dal poter dare un indirizzo alla politica nazionale che ha provocato la odierna vasta protesta senza vera proposta. I partiti sono stati certamente mediocri, ma il nesso centrale che ha determinato il caos odierno è quello tra “mani nette” e “mani inette”.
Il lupetto Iran accusa gli agnelloni saudita e trumpista di intorbidargli le acque. “Siamo pronti a incrementare la gittata dei nostri missili fino a oltre duemila chilometri”. Così ha detto il generale Hossein Salami (che secondo un articolo del New York Times, che citiamo qui di seguito, sarebbe la “nuova star” dell’Iran) sulla Repubblica del 26 novembre. “France has called for an ‘uncompromising’ dialogue with Iran about its ballistic missile program and a possible negotiation over the issue separate from Tehran’s 2015 nuclear deal with world poker”secondo Bozorgmehr Sharafedin che scrive per la Reuters il 26 novembre la Francia ha chiesto un intransigente dialogo con Teheran sui missili balistici pur separato dal negoziato sul nucleare. Intanto sul New York Times del 26 novembre Thomas Erdbrink spiega che “After years of cynicism, sneering or simply tuning out all things political, Iran’s urban middle classes have been swept up in a wave of nationalist fervor. The changing attitude, while some years in the making, can be attributed to two related factors: the election of President Trump and the growing competition with Saudi Arabia, Iran’s sectarian rival, for regional dominance”, dopo anni di cinismo, di disprezzo della politica, la middle class urbana iraniana è percorsa da un nuovo fervore patriottico. Il cambiamento di attitudine è dovuto all’elezione di Trump e alla competizione con l’Arabia Saudita. “Saudi Arabia and Israel, are pushing even more aggressively than usual to confront Iran. With the Obama administration gone, they have found a soul mate in the White House”. Mehdi Hasannov scrive sul New York Times del 29 novembre che l’Arabia Saudita e Israele hanno atteggiamenti sempre più aggressivi verso l’Iran. Com’è che diceva Fedro? Ad rivum eundem lupus et agnus venerant, siti compulsi. Superior stabat lupus, longeque inferior agnus. Il lupo che stava sopra accusava l’agnello sottostante di intorbidare l’acqua che cascava dall’alto. Teheran, Trump o non Trump regnante, ha mandato le sue milizie in Irak, ha esportato guerriglieri sciiti afghani nella Mezzaluna islamica, ha armato i ribelli dello Yemen, terrorizza il Libano armando gli Hezbollah, ogni due per tre chiede di far sparire dalla faccia della terra Israele. Comprendiamo come Teheran fosse ben contenta di trattare con l’inetto Barack Obama, ma adesso Trump (magari grazie a suoi consiglieri come i magnifici generali della sua amministrazione) è un osso più duro e la modernizzazione dell’Arabia saudita diventa un’arma pericolosa per il fondamentalismo jihadista che ora ha il suo cuore in Iran. Il lupetto iraniano dovrà fare ben i suoi conti perché l’agnellino che viene accusato di intorbidare le acque non è più così sperso come quando c’erano quei due geni di Hillary Clinton e il suo successore John Kerry a guidare la politica estera americana.