Google, le donne e la libertà di parola

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Google, le donne e la libertà di parola

13 Agosto 2017

Qualche giorno fa, James Damore, giovane ingegnere californiano impiegato di Google, è stato licenziato per un appunto di dieci pagine, inizialmente circolato solo internamente, in cui chiedeva all’azienda una “discussione onesta” sulle “affirmative action” che Google ha applicato per equilibrare la quota di dipendenti donne. 

Secondo Damore, ex studente della Harvard University, queste politiche di genere sono ancorate non alla realtà ma alla cultura dominante. Se le donne sono meno rappresentate rispetto agli uomini nelle aziende del settore “tech” non è per discriminazione: semplicemente, sono più interessate ad altri settori. La diversità biologica tra i due sessi – spiega – caratterizza anche le differenti sensibilità e attitudini al lavoro, per questo “bisogna smettere di pensare che la differenza di genere impliciti sessismo”.

Nella chat aziendale su cui è stato pubblicato il documento, (“Google’s Ideological Echo Chamber”) si è immediatamente scatenato il putiferio. Molti, ovviamente, sono stati gli attacchi  (qualcuno lo ha accusato di essere “bigotto” e, persino, “nazista”), ma Damore ha ricevuto anche diversi messaggi di solidarietà, a conferma del fatto che, come spiegato nella stessa nota, non era l’unico dipendente non allineato al “politically correct” aziendale. 

A stretto giro è arrivata una dichiarazione firmata da Danielle Brown, vice presidente del Dipartimento Diversità, Integrazione e Governance, con cui Google prende le distanze dall’ingegnere ribelle, sottolinea l’importanza che i valori della diversità e dell’inclusone hanno per l’azienda, e ribadisce l’apertura a punti di vista alternativi. Di fatto, però, James Damore è stato licenziato per mancato rispetto del codice di condotta. 

Il giovane, che intanto ha già ricevuto nuove proposte di lavoro, è deciso ad andare avanti nella sua battaglia. @fired4truth è l’account Twitter con cui ha deciso di intraprendere una vera e propria campagna contro la “dittatura” del gigante Google. Nella foto scelta per il profilo, James indossa una t-shirt con il logo “Goolag”, giocando, con ironia, sulla similitudine letterale tra il brand californiano e il nome con cui vengono storicamente identificati i campi da lavoro creati da Stalin nei Soviet. 

Il tema, ancora una volta, è preservare la libertà di espressione, il diritto a esprimere liberamente le proprie idee. È probabile che la storia che vi abbiamo raccontato finisca anche nelle aule di qualche tribunale, ma non è necessario aspettare ulteriori sviluppi per riconoscere nell’evoluzione della multinazionale californiana i segni di una arroganza sociale e culturale che omologa e, pericolosamente, allinea al pensiero dominante. Chi non si allinea, semplicemente, viene licenziato.