L’Italia non è competitiva. Lo sapevano tutti, tranne TPS
13 Novembre 2007
Ci dobbiamo rassegnare ad una crescita economica rasoterra quale quella
che caratterizza l’Italia dall’inizio degli anni ’90 (e che, secondo le
più recenti stime della Commissione Europea, del Fmi e dell’Ocse,
continuerà a travagliarci nel prossimo futuro). Sembra essersene accorto perfino il ministro dell’Econimia, Tommaso Padoa Schioppa, che proprio ieri, dopo la riunione dell’Eurogruppo, ha riepilogato le ragioni di preoccupazione per la perdita di competitività del nostro paese. Ma tutto era già scritto nei numeri.
Le previsioni del Fmi e
dell’Ocse sono state presentate alcune settimane fa; quelle della
Commissione Europea venerdì 9 novembre. I dettagli sono scaricabili dai
siti web delle tra istituzioni. Tutte e tre hanno un tema di fondo:
l’economia dell’area dell’euro sta subendo una fase di rallentamento (una
crescita del pil del 2,6% nel 2007 e del 2,2% nel 2008 e nel 2009), ma
l’Italia ne è il fanalino di coda (una crescita del pil dell’1,9% nel
2007, dell’1,4% nel 2008 e dell’1,6% nel 2009) con il risultato, tra
l’altro, che il rapporto indebitamento netto delle pubbliche
amministrazioni e pil resterà al 2,3 nei tre anni della previsione e, di
conseguenza, non si azzererà nel 2010 (come sostiene imperturbabile il
Ministro dell’Economia e delle Finanze, Tommaso Padoa-Schioppa).
Chi pensasse che dietro i calcoli di Commissione Europea, Fmi e Ocse ci
siano quegli “gnomi di Zurigo” che secondo il Presidente Usa dell’epoca
(Richard Nixon) ce la hanno contro questo e contro quello (ed ora se la
sarebbero presa con il Professore e la sua variegata comitiva) , dia
un’occhiata alle stime del consensus (20 istituti econometrici privati
internazionali) diramate (a chi vi è abbonato) il 7 novembre: sono
analoghe a quelle degli organismi internazionali (anzi ancora meno
ottimistiche per l’Italia di cui evidenziano un marcato rallentamento
rispetto alle stime diffuse dal “consensus” all’inizio di ottobre?
E’ colpa del “destino cinico e baro”, per evocare un’espressione
degli Anni ’60 o più semplicemente del malgoverno che caratterizza il
Paese? L’aumento della spesa e del carico fiscale con la finanziaria del
2006 sul 2007 avrà un effetto frenante (dicono i modelli econometrici)
per almeno tre anni, le lenzuolate “Bersani” avvolgono la morte delle
liberalizzazioni, la privatizzazione Alitalia è ormai una pochade degna
di quelle che Sacha Guitry metteva in scena nei palconoscenici
boulevardiers parigini degli Anni 30, di privatizzazioni Rai e Poste non
si parla più, si crea un nuovo Iri attorno alla Cassa Depositi e
Prestiti, viene azzerata la riforma previdenziale che porta il nome del
Sen Lamberto Dini: questi non sono che alcuni aspetti di una politica che
non soltanto non promuove la crescita ma non governa neanche quel declino
di cui, in varia misura, soffrono vari Paesi dell’Ue a ragione
dell’integrazione economica internazionale e delle implicazioni che essa
comporta per chi non riesce a riconvertire la propria economia verso
attività ad alto valore aggiunto. L’Occidentale commenta con
frequenza i singoli aspetti della politica economica della sinistra di
malgoverno, sottolineandone principalmente le dimensioni
macro-economiche.
Le ultime stime tanto di istituzioni internazionali quanto di centri
privati di analisi econometrica inducono a mettere l’accento su elemento
distintivo (se ci raffrontiamo con il resto dell’area dell’euro): il
marcato rallentamento dalla produttività del lavoro. Secondo i dati
Eurostat e Bce (anche essi scaricabili dai siti delle rispettive
organizzazioni), nel 2001-2005, nell